«Sarà un anno difficilissimo» per le politiche fiscali di mezzo mondo. Appena prima di partire per l’immancabile Forum di Davos la numero uno del Fondo Monetario internazionale Kristalina Georgieva (nella foto) ha concesso un’intervista all’agenzia France Presse in cui non ha nascosto le sue preoccupazioni. A incupire le previsioni della banchiera bulgara è il record di elezioni previsto per l’anno appena iniziato. Sono 80 i Paesi, tra cui colossi come l’India, in cui si andrà alle urne e in base alle leggi non scritte del cosiddetto «ciclo elettorale» le politiche della spesa statale tenderanno a un orientamento espansivo. Il fenomeno si presenta con regolarità statistica: in prossimità delle votazioni politiche i governi in carica sono più inclinati a «comprare» i voti dei cittadini allentando un po’ i cordoni della Borsa.
Di per sè il fenomeno potrebbe anche passare inosservato se non fosse che cade in un momento delicato. Dopo i picchi raggiunti dalle Banche centrali nell’alzare il livello dei tassi di interesse potrebbe essere arrivato il momento dell’inversione di tendenza. Un cambio di rotta che i custodi della moneta hanno, chi più chi meno, annunciato: se verificheranno che l’inflazione è davvero domata, abbasseranno i tassi, concedendo nuovo respiro alla crescita economica.
Il quadro appare se non perfetto almeno ottimistico, ma c’è un ma: il boom della spesa pubblica potrebbe mettere in pericolo proprio la lotta all’inflazione. «Se la politica monetaria è severa e la politica fiscale è invece espansiva, andando in senso contrario all’obiettivo di abbattere la crescita dei prezzi, il viaggio verso il ribasso dei tassi potrebbe farsi più lungo», ha avvertito Georgieva. E alla fine pompare denaro nel sistema economico potrebbe rivelarsi controproducente.
Da notare, tra l’altro, che il debito (pubblico e privato) è la grandezza economica cresciuta di più negli ultimi decenni. Dal 2000 a oggi si è quadruplicato a livello internazionale. L’impennata si confronta con l’aumento dell’economica globale che è cresciuta «solo» di tre volte. In dicembre, poche settimane fa, l’Istituto per la Finanza Internazionale annunciava, con qualche preoccupazione, che il debito globale aveva raggiunto un nuovo record, quello dei 307 trilioni di dollari (secondo la traduzione dall’inglese, formalmente impropria, ma ormai consolidata nell’uso corrente, 1 trilione vale mille miliardi).
A dare un colpo decisivo al debito globale sono stati gli anni del Covid: l’esposizione globale è cresciuta dai 226 trilioni del 2020 ai 303 del 2021: il salto più vistoso dal periodo della seconda guerra mondiale. In base al principio che nessun pasto è gratis, secondo la frase resa celebre da Milton Friedman, la crescita del debito è diventata una palla al piede per molti Paesi. L’esigenza di ripagare interessi e capitale toglie spazio agli investimenti e alle spese per gli altri settori del bilancio pubblico come istruzione e sanità.
Per i Paesi emergenti, ma non solo, si tratta di un vincolo che può rivelarsi soffocante. Tanto più che le previsioni di un panel di oltre 60 economisti interpellati in vista del World Economic Forum non sono particolarmente ottimistiche: il 56% tra loro prevede per l’anno in corso una crescita debole. Soprattutto in Europa.