Ha alzato una mano dopo aver legato al polso, come un piccolo manifesto, una fascia bianca con scritto «7 ottobre, 100» e accanto una piccola Stella di David, il numero dei giorni da quando gli ostaggi israeliani sono nella mani di Hamas. Poi ha disegnato un cuore con le mani, nel cuore della Turchia che odia Israele.
Domenica Sagiv Jehezhel era appena riuscito a condurre la sua squadra l’Antalyaspor al pareggio contro la Trazbonspor nel campionato turco quando ha fatto la sua manifestazione. Sapeva per certo che nella Turchia di Erdogan questo è un delitto da punire: i 132 ostaggi sono per il regime turco solo una meritata punizione per il regime sionista nella guerra in cui Erdogan parteggia per Hamas sin da prima del 7 di ottobre. Mentre il club dell’Antalyaspor sospendeva il giocatore israeliano, cancellava dal sito tutte le foto del celebrato goal licenziando in tronco il giocatore perché «ha agito contro la sensibilità di Antalya, dell’Antalyaspor e del nostro Paese» (un licenziamento che gli costerà più di un milione di dollari) la Federazione Turca del calcio trovava il gesto del tutto «appropriato». E qui, il Ministro della Giustizia ha aperto un caso giudiziario contro il giocatore «per aver incitato il popolo all’odio e all’ostilità» col suo «disgustoso gesto di supporto per il massacro israeliano di Gaza» e gli ha mandato la polizia. Sagiv è stato portato in prigione nello stile di Erdogan le cui carceri sono piene di giornalisti, donne che non seguono le regole dell’Islam, curdi, dissidenti che hanno osato ribellarsi. Ma stavolta la protesta internazionale, forse riscaldata dalla guerra in corso, e quell’elasticità opportunista che fa di Erdogan sia un membro della Nato che l’estremista della Fratellanza Musulmana amico di Hamas, che organizzò lo sbarco armato della Mavi Marmara, che chiama Netanyahu «Hitler», ha suggerito di espellere subito Sagiv invece di lasciarlo marcire nelle carceri del regime. Così i fan della squadra Poel Beersheba, la squadra originaria di Sagiv, hanno ieri sera ricevuto con le bandiere all’aereoporto Ben Gurion l’eroe che non ha avuto paura di mostrarsi solo di fronte a un popolo aizzato e a un regime che lo odia. Sagiv Jehezhel portato in trionfo al grido di «gibor», eroe, ha detto alla folla solo la frase che ripetono i soldati in questi giorni: «Nessuno è come il popolo d’Israele. Ora, però, vado a riposarmi un po’ a casa».
Erdogan si è distinto dal 7 di ottobre nel suo consueto odio per Israele e sostegno per il terrorismo: nei giorni scorsi durante il processo dell’Aya ha anche dichiarato che si stava dando da fare per fornire prove all’ICJ che Israele è un Paese genocida. Da vero Sultano ottomano Erdogan si vede come liberatore di Gerusalemme, riceve e ospita a casa sua alti rappresentanti di Hamas e degli Hezbollah, ha contatti strategici con l’Iran e la Russia.
Il Ministro della sicurezza nazionale di Israele, Ben Gvir ha invitato gli israeliani a non andare mai più in Turchia, e Yoav Gallant, ministro della Difesa, che ha ricordato la generosità con cui Israele ha aiutato la Turchia durante il terremoto e ne ha deplorato l’ipocrisia e ingratitudine; mentre il ministro degli Esteri Israel Katz ha detto che «chi arresta un giocatore di calcio per aver espresso solidarietà con 136 ostaggi detenuti da 100 giorni nelle mani di una delittuosa organizzazione terrorista, rappresenta una cultura di odio e violenza». In tutta risposta, un altro calciatore israeliano è finito in stato di fermo: Eden Kartsev, centrocampista del Basaksehir.
Secondo i media israeliani sarebbe in arresto e in procinto di essere espulso. L’indagine è scattata per una storia su Instagram in cui il calciatore chiedeva la liberazione degli ostaggi del proprio Paese, ripostando il logo di un’organizzazione sionista, la Zionist Federation. Dopo l’uccisione di George Floyd i giocatori si inchinarono su tutti i campi di calcio, e lo fecero nel rispetto generale. Per i sequestrati, bambini vecchi, donne, nemmeno una piccola fascia bianca su un braccio?