Dopo gli attacchi missilistici iraniani e i nuovi raid aerei statunitensi in Yemen, l’asticella della tensione in Medio Oriente si è ulteriormente alzata. Tutti i Paesi dell’area che va dal Mar Rosso al confine con la Turchia sembrano ora coinvolti in qualche misura nel conflitto scoppiato il 7 ottobre. Nessuno degli attori coinvolti, però, sembra deciso a spingersi oltre la “linea rossa”. Questo gioca a favore della Repubblica islamica, alle prese con gravi instabilità interne e nella manipolazione dei fili di una strategia volta a mantenere un certo livello di destabilizzazione, senza però farsi coinvolgere direttamente nel conflitto tra Israele e Hamas.
“Il raid nel Kurdistan è un segnale ai fedeli dell’islam politico globale e, contemporaneamente, un tentativo di mobilitare quella piccola fetta di sostenitori interni in vista delle elezioni parlamentari di marzo”, spiega Pejman Abdolmohammadi, docente di Relazioni internazionali del Medio Oriente all’Università di Trento. L’esperto sottolinea come il costo del raid in Iraq sia “relativamente basso” per Teheran, al netto delle dichiarazioni pubbliche del governo di Baghdad che, oltre a richiamare il suo ambasciatore in segno di protesta, non compirà altre mosse contro gli ayatollah perché significherebbe lo scoppio di una guerra di portata regionale. I pasdaran hanno dichiarato di aver colpito il quartier generale del Mossad a Erbil e un raduno dei terroristi coinvolti negli attentati di Kerman. Una duplice vittoria per il presidente Ebrahim Raisi, dunque, che può annunciare alla popolazione di aver rispettato le sue promesse di vendetta sia per l’attacco del 3 gennaio, sia per l’eliminazione del comandante dei guardiani della Rivoluzione in Siria Sayyed Razi Mousavi. Due successi, questi, che il leader di Teheran è costretto a spendere in patria e con i componenti del cosiddetto “asse della resistenza”.
Da un lato, infatti, l’Iran è alle prese dal 2022 con una serie di proteste scatenate dalla morte di Masha Amini, molto estese a livello geografico e di partecipazione popolare. Le manifestazioni sono stare represse con violenza, ma nel quotidiano continuano le rivolte e gli atti di disobbedienza civile che minano alla base il regime degli ayatollah. Dall’altro, il governo del Paese è stato accusato dai propri alleati, in particolare gli Hezbollah e Hamas, di non aver fatto abbastanza nel sostenere la guerra contro lo Stato ebraico. Fin dalle prime settimane, infatti, alcuni esponenti di alto profilo dell’organizzazione terrorista palestinese si sono detti “delusi” da quella che è stata vista come un’inazione di Teheran, che ha sovvenzionato e addestrato i miliziani per poi lasciarli soli ad affrontare le Idf. Pare che la Repubblica islamica stia tenendo stretto anche il guinzaglio del Partito di Dio libanese, anche se molti osservatori concordano nel dire che lo stesso Nasrallah non vuole una guerra con Tel Aviv. A questo si aggiunge anche lo “smacco” inferto dagli ayatollah dagli Houthi.
Grazie ai loro attacchi nel Mar Rosso, i ribelli yemeniti hanno guadagnato un posto sotto i riflettori come gli unici membri dell’”asse della resistenza” abbastanza coraggiosi da compiere azioni concrete contro la coalizione internazionale. Nonostante i raid americani e inglesi, non hanno interrotto le loro azioni ostili contro i mercantili, l’ultima delle quali è stata condotta contro un cargo di proprietà greca. Teheran continua a sovvenzionarli e gli Stati Uniti sono convinti che fornisca loro anche l’intelligence necessaria a lanciare missili contro i mercantili, ma agiscono comunque in modo autonomo e si può ipotizzare che abbiano deciso di ignorare alcune direttive provenienti dall’Iran. I raid nel Kurdistan, dunque, possono essere visti come un tentativo della Repubblica islamica di mostrarsi attiva e di essere pronta a “sporcarsi le mani” personalmente, senza ricorrere solo ai suoi proxy e alle varie milizie nell’area, in modo da riabilitare la propria posizione sia a livello internazionale, sia tra i propri cittadini.