Deterrenza, due Stati e disordine mondiale. I 100 giorni di Israele che cambiano tutto

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Ieri son stati cento giorni. Cento giorni di guerra da Gaza al Libano, dal Mediterraneo al Mar Rosso. Ma soprattutto dai cuori di Israele e Gaza a quelli di tutti noi. Perché l’orrore, iniziato il 7 ottobre con i massacri di Hamas e proseguito con i bombardamenti israeliani su Gaza, non è una guerra come le altre. Il 7 ottobre entrerà nei libri di storia come uno iato non diverso dagli spari di Sarajevo alla vigilia della prima guerra mondiale o dalla questione di Danzica pretesto della seconda. In questo contesto, i grandi e gravi eventi dell’ultimo ventennio come l’11 settembre o l’attacco all’Ucraina stentano a reggere il confronto. La constatazione può sembrare mancanza di rispetto nei confronti delle vittime del terrore alqaedista o dei caduti nella mattanza ucraina. Ma la gravità di un evento non dipende soltanto dalla conta dei morti. Che in questo caso non sono comunque irrilevanti. Sotto i colpi di Hamas sono caduti nello spazio di un mattino più di 1200 israeliani. Nei 99 giorni successivi, le bombe di quest’ultimi avrebbero falcidiato, (ma ricordiamolo i conteggi li forniscono i carnefici del 7 ottobre) 24mila palestinesi, ovvero l’1% per cento della popolazione della Striscia senza contare feriti e sfollati. Il tutto nel tempo in cui d’autunno s’accorciano le giornate e cadono le foglie. Ma, lo ripetiamo, in questo caso più delle vite falciate contano l’ordine perduto e le svolte fuori controllo di un mondo senza più regole. Questo è più grave dell’orrore perché regala la sensazione che tutto possa ripetersi e nessuno sia in grado di far alcunché per impedirlo. Pensate a Israele. Nello spazio di un mattino ha visto svanire le sue armi più importanti. Oltre a perdere la fiducia nel proprio esercito e nella propria classe dirigente e a ritrovarsi privo di quella capacità di deterrenza che per 50 anni aveva convinto gran parte dei vicini arabi e musulmani a non sfidarlo. Per riguadagnarsele è costretto a rinunciare agli imperativi morali che per lungo tempo gli hanno imposto di misurare la risposta nel rispetto non solo dei civili, ma anche dei valori e delle regole di unica democrazia mediorientale. Ma nella fornace del 7 ottobre si è consumata anche la soluzione dei «due stati per due popoli». E con essa la speranza di un Medio Oriente pacificato. Un Medio Oriente dove Israele sia accettato dalle nazioni arabe. Un Medio Oriente dove all’Iran sciita, ai suoi alleati e al jihadismo sunnita non sia più consentito propagandare il miraggio della distruzione dello Stato Ebraico per conquistare il consenso delle opinioni pubbliche islamiche. Ma tutto questo non è rimasto limitato al vicino Oriente. La velocità con cui lo tsunami del 7 ottobre ha divorato accordi e paci cinquantennali ci ha fatto dimenticare anche la mattanza di un Donbass alle porte d’Europa. O meglio ci ha convinto che, nonostante i miliardi di armi regalati a Kiev, anche il destino di quel conflitto sia in fondo ineluttabile in assenza di una potenza in grado di dettare le regole dell’ordine mondiale. Abbiamo perso l’ultimo briciolo di speranza in un’America ripiegata su se stessa e incapace non solo di fermare Putin, Hamas, l’Iran e gli alleati Houthi, ma persino di placare la rabbia dell’alleato israeliano. Nello spazio di un autunno, l’umanità ci è sembrata naufragare in un universo privo di regole. E di potenze in grado d’imporle. Un universo in cui ci siamo ridotti a dar per scontata anche l’ineluttabile zampata della Cina su Taiwan. Per questo, i cento giorni di Gaza passeranno alla storia come la stagione che ha sconvolto il mondo e sepolto le nostre speranze.

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