C’erano una volta i signori del lusso Made in Italy. Ora comanda lo straniero

Vince chi mantiene i nervi saldi, obbligazioni pronte alla carica

Alla fine una delle poche maison italiane a mantenere la propria indipendenza è stata la Ermenegildo Zegna. È sbarcata a Wall Street a dicembre 2021 con il supporto della Investindustrial di Andrea Bonomi e nei primi nove mesi dell’anno scorso ha praticamente raggiunto lo stesso fatturato del 2022 (1,33 miliardi contro 1,5 miliardi). Ma Zegna con Ferragamo è una mosca bianca nell’ambito del fashion & luxury italiano, per la maggior parte è in mani estere.

A recitare la parte del leone è la Francia con i due colossi Lvmh e Kering che sono i proprietari di marchi storici del made in Italy. Il gruppo di Louis Vuitton e di Moët & Chandon, guidato da Bernard Arnault, ha fatto incetta di boutique del lusso grandi e piccole di casa nostra. Dai nomi altisonanti come Bulgari, Fendi, Emilio Pucci e Loro Piana si va a quelli più di nicchia come Acqua di Parma e Berluti nonché la Pasticceria Cova di Via Montenapoleone. In più il 10% di Tod’s. Una multinazionale talmente imponente da non restare indifferente alle realtà emergenti come Off-White di cui possiede il 60% e come Etro, controllata indirettamente dalla famiglia Arnault tramite il fondo di private equity L.Catterton.

Lo stesso discorso si può fare per la Kering diretta da François-Henri Pinault. In poco meno di un trentennio ha accumulato brand come Gucci, Bottega Veneta, Brioni, Pomellato e Richard Ginori. La scorsa estate ha poi messo a segno un altro colpo acquistando il 30% di Valentino dal fondo del Qatar Mayhoola. La spiegazione è semplice se si guardano i numeri: la Francia è il secondo Paese per investimenti in Italia dopo gli Stati Uniti. E, analogamente, non è un caso che gli Usa siano presenti nel lusso made in Italy con la conglomerata Tapestry-Capri Holdings che controlla Versace e punta a contrastare i due giganti francesi, con Bacardi proprietario di Martini & Rossi, con Haworth che detiene Poltrona Frau. Non mancano gli svizzeri di Richemont che hanno in portafoglio marchi come Buccellati, Officine Panerai e Serapian.

Infine, ci sono anche le tigri asiatiche: Coccinelle, dal 2012 è in mano al colosso coreano E-Land, lo stesso aveva rilevato Mandarina Duck in un periodo di difficoltà. Krizia, storico marchio della moda made in Italy, nel 2014 è finita sotto il controllo della cinese Shenzhen Marisfrolg Fashion, mentre nel 2021 Fosun ha acquistato le calzature Sergio Rossi per 60 milioni.

In quest’ultimo caso, le cifre sono importanti, perché la maggior parte di queste operazioni raramente ha superato un controvalore di un miliardo di euro. E in molti casi le dichiarazioni dei fondatori che passano la mano sembrano fotocopiate: «Era arrivato il momento di crescere, ma non c’era nuova finanza a disposizione e così abbiamo venduto». In un Paese nel quale oltre il 90% delle aziende rientra nella categoria microimprese anche la moda e il lusso non fanno eccezione alla regola.

Tranne i grandi nomi gli altri sopra elencati erano spesso piccole realtà se confrontate con le dimensioni del mercato globale e, dunque, necessitavano di capitali per espandere un’attività che ha sempre bisogno di manodopera e risorse finanziarie per il salto dimensionale. O per restare competitive se già grandi. Aggiungiamo la scarsa dimestichezza alle aggregazioni di filiera delle aziende a controllo familiare e il gioco è fatto. Come dichiarò Santo Versace in un’intervista: «Quando mio fratello Gianni fu assassinato avevamo un accordo con Gucci che, se fosse stato portato a termine, avrebbe impedito la nascita di Kering».

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