Chi di austerità colpisce di recessione perisce. È il triste apologo che ci narrano i dati sui fallimenti delle imprese tedesche pubblicati nei giorni scorsi. Secondo l’Ufficio federale di statistica (Destatis), le richieste di insolvenza sono aumentate del 22,4% annuo a ottobre (+19,5% il tasso di settembre). Il tasso di crescita è a due cifre dallo scorso giugno e non accenna a diminuire. Potrebbe trattarsi della punta di un iceberg giacché le statistiche si riferiscono solo alle aziende che cessano l’attività nell’ambito di un processo di insolvenza ordinato e non a quelle che chiudono i battenti da un giorno all’altro. Il caso più eclatante è stato quello di Galeria Karstadt Kaufhof, terzo fallimento in 4 anni per la catena di grandi magazzini attualmente controllata dall’imprenditore austriaco René Benko, che a sua volta deve salvare la sua holding Signa da 25 miliardi di debiti. Solo che a soffrire realmente sono i 15mila lavoratori che rischiano di finire in mezzo a una strada da un giorno all’altro. Anche perché con l’esplosione dell’e-commerce i vecchi grandi magazzini devono reinventarsi per sopravvivere.
Solo che in Germania non è solo il terziario ad andar male. A inizio anno, ad esempio, ha chiuso anche Bree, un’azienda di pelletteria le cui borse erano le preferite del cancelliere Olaf Scholz (in foto). E proprio al Bundeskanzler la Cdu, oggi all’opposizione, rimprovera di aver disastrato l’economia tedesca. Il 2023 dovrebbe essersi chiuso in piena recessione (-0,4%), mentre la crescita 2024 dovrebbe essere inferiore a quella attesa per l’Italia (il consensus è di +0,6% contro il nostro +0,7%). Insomma, anche Berlino si è imprigionata in una stagnazione senza sbocchi, c’è poco da fare.
Ma poiché la Germania è di fatto la guida dell’Europa, la sua crisi è totalmente autoindotta. L’aver insistito perché la Bce alzasse i tassi all’impazzata per sconfiggere l’inflazione, l’aver ritirato repentinamente i finanziamenti alla transizione digitale e green (anche perché la Corte Costituzionale ha scoperto 60 miliardi di debiti fuori bilancio) e il rigore nei conti pubblici hanno penalizzato i consumi. A novembre le vendite al dettaglio sono crollate del 2,4% su base annua. Se a questo aggiungiamo che le guerre in Ucraina e in Medio Oriente e la stagnazione economica dei partner Ue hanno nuociuto all’export, il mix letale è pronto.
Secondo Jonas Eckhardt, specialista della società di consulenza Falkensteg, nel 2024 le insolvenze in Germania aumenteranno di oltre il 30% tra le aziende con un fatturato annuo superiore ai 10 milioni di euro. Alla fine del 2023 solo il 52% delle imprese in crisi poteva essere salvato dall’insolvenza rispetto al 62% di due anni fa. È normale: più sale il costo del denaro più dalle ristrutturazioni si attendono ritorni monstre dagli investimenti per remunerare il rischio. E di fatto non si investe più perché un titolo di Stato ti ricompensa senza farti rischiare quasi nulla. Troppo facile chiosare con il solito «chi è causa del suo mal pianga se stesso» perché se la Germania sta male, l’Italia rischia di ammalarsi insieme a lei che è uno dei nostri principali partner commerciali. È solo un’altra triste storia di questa declinante Europa che rischia di naufragare per non derogare a un’austerity cieca e, ormai, autolesionistica.