Parte domani, in questo lunedì di metà gennaio, sotto una bufera di neve, con il vento a 90 chilometri orari e i termometri che segnano meno 34 gradi. L’inverno battezza l’inizio delle primarie e l’Iowa è un deserto bianco che si distende tra le sponde del Mississippi e Missouri. È come se questo scenario si adeguasse al clima della democrazia americana, che in questi giorni fa i conti con i suoi spettri e le sue paure, fino a inaridire ogni cosa, perfino la speranza che da questa corsa verso il nulla si possa alla fine uscirne senza farsi troppo male. Per ora è solo il gelo che comanda. La tempesta ruota intorno a un vuoto, Donald Trump, l’uomo che in Iowa è solo un’orma sulla neve, grande e pesante, che influenza ogni passo, ma che al momento resta virtuale, in attesa che la Corte Suprema degli Stati Uniti trovi il tempo per una sentenza. La domanda è di quelle che fanno storia. Chi ha giurato fedeltà alla Costituzione può candidarsi dopo aver sostenuto una rivolta, un’insurrezione? Messa così la risposta non può che essere un no. Solo che le cose non sono mai cosi semplici. C’è da chiarire il ruolo di Trump nella brutta sceneggiata dell’assalto al Campidoglio. C’è da definire il senso del quattordicesimo emendamento, gli avvocati di Donald sostengono che quella norma non si riferisca agli ex presidenti. C’è un tribunale dove i giudici sono in maggioranza conservatori e tre sono stati nominati dallo stesso accusato. Il buon senso insomma non sempre è scontato.
Il destino di Trump cambia le prospettive e mette i repubblicani davanti a un paradosso politico. Il grande e vecchio partito è spaccato quasi a metà. Tanti vorrebbero sbarazzarsi di Donald, ma non ne hanno la forza. Il consenso di Trump alle primarie è più vasto di qualsiasi avversario. I guai giudiziari lo rendono ancora più popolare e non c’è nessuno in grado di sfidarlo seriamente. Gli elettori repubblicani vogliono lui, l’impresentabile. Il problema è che non sono i soli. Eccolo allora il paradosso. Trump è anche l’avversario preferito dalle élites del Partito Democratico. La base lo odia, lo considera il male assoluto e sputa sul suo nome e sui capelli color carota avvizzita. Chi invece ragiona di politica sa che qualsiasi candidato repubblicano, perfino il marginale Vivek Ramaswamy, miliardario bio-tech, sconfiggerebbe il disastroso «Sleepy Joe». L’unico che rischia di perdere con Biden è proprio Trump. Incredibile, ma è così. Quella tra i due presidenti è un’altra gara. È un’altra storia. Non si vota per chi andrà di nuovo alla Casa Bianca, ma per un’idea dell’America, per il suo futuro, per quello che ne resterà dopo uno scontro tra particelle elementari e inconciliabili. Lo scontro si amplia e finirà per coinvolgere anche gli indecisi, i menefreghisti, quelli che tanto si tira a campare, quelli che in genere non hanno voglia e tempo per votare. La scelta pro o contro Trump compatterà i democratici, ma soprattutto spingerà i repubblicani meno partigiani a scantonare. Questo non significa che Biden vincerà, ma che ha meno probabilità di perdere, con Trump può giocarsela.
I democratici si stanno interrogando su come disarcionare il loro presidente in carica. Non basta un sereno discorso sulla senilità, soprattutto se chi ascolta non riconosce i propri limiti. L’ideale per chi legge il «New Yorker» sarebbe un passo indietro alla vigilia delle elezioni e in un’altra storia sarebbe tutto facile. Il vecchio presidente lascia e al suo posto metti il vice. A quel punto il candidato di diritto sarebbe lui, anzi lei. Questo funziona se la lei di turno non fosse Kamala Harris, una sciagura peggiore secondo gli stessi democratici. A quel punto i passi indietro diventerebbero un po’ troppi. L’impressione è che le elezioni americane siano una corsa a perdere da qualsiasi parte la vedi. È una sorta di «ciapanò» dove il candidato più forte dei repubblicani è un avventuriero che si gioca tutto in una botta sola, al punto da resuscitare l’avversario morto e quello dei democratici è una speranza insondabile persa da qualche parte nello spazio e nel tempo. È lo scenario di una democrazia sterile.
Allora non resta che tornare qui, al 15 gennaio, nello spazio bianco dell’Iowa e cercare di seguire le tracce repubblicane delle possibili alternative a Trump. Si tornavano proprio adesso a Des Moines, capitale dello Stato, pronti a sbertucciarsi per questo primo caucus della lunga corsa. Il più aggressivo è Ron DeSantis, governatore della Florida, madre e padre di origine italiana, controalfiere di tutto ciò che puzza di ideologia «woke», in retromarcia nei sondaggi e con un elettorato che in parte viene dallo steso lago di Trump. È il suo punto debole con Donald in campo, la sua fortuna se è fuori gioco. Ora se la sta vedendo con Nikki Haley, data sempre un po’ in rimonta, tanto da recuperare qualcosa ai consensi di Trump. De Santis due giorni fa ha invitato gli elettori repubblicani a non fidarsi di lei, soprattutto quando parla di immigrazione. «È come avere la volpe che sorveglia il pollaio». L’affondo era facile. È figlia di indiani del Punjab. Il suo nome da nubile è Nimrata Randhawa. In campagna elettorale ha preferito il soprannome Nikki e il cognome del marito. Trump, che un tempo la stimava, non ha perso l’occasione per definirla «non americana». Haley rappresenta il partito tradizionale, ex governatrice del South Carolin e ex ambasciatrice all’Onu, tutta una carriera dentro il sistema, con posizioni anti abortiste e alle spalle i soldi dei ricchissimi fratelli Koch. È lei l’alternativa a Trump? C’è chi ci spera, ma sembra una battaglia persa. Allora lo scenario più probabile rischia davvero di gelare la democrazia americana. Se Trump e Biden si sfideranno per una manciata di voti può accadere di tutto. L’unica speranza è una sconfitta, dell’uno o dell’altro, al di sopra di ogni sospetto.