Nella casa dove si curano gli abusi e le violenze

Nella casa dove si curano gli abusi e le violenze

C’è una casa in fondo a via dei Missaglia dove regalano sogni a chi non li ha mai avuti. Anche quando si spengono tutte le lucine del Natale. È una casa con un grande giardino, le pareti lilla, blu e verdi, i letti con i peluche, i profumi della cucina, la cuoca Patrizia e il suo vitello tonnato delle grandi occasioni. Ci sono sorrisi, pazienza, abbracci e vestiti nuovi distribuiti a tutti i bambini che varcano questa soglia. Spesso (o in una busta di plastica, vuota eppure così pesante con quel carico di paure, incubi che fanno risvegliare la notte, lacrime di ferite enormi, lividi invisibili e non. È una casa comunità, ospita 30 bambini. Hanno fra i 3 e i 12 anni e sono qui perché non possono più stare con i loro genitori. Almeno per un po’, un paio di anni in media. Un «po’» che misurato alla loro vita è tanto, qualche volta più lungo della loro stessa età, in certi casi (purtroppo) troppo rispetto a quello che sarebbe necessario. Il Tribunale ha stabilito che dovevano essere allontanati da mamma e papà. Sono vittime di maltrattamenti, abusi, abbandoni, violenze, di genitori fragili, talvolta tossicodipendenti o finiti dietro le sbarre e non solo una volta. Sono figli innocenti di chissà quale dio, o più banalmente di una madre che aveva riempito la notte della figlia con il via vai in casa di spacciatori, tra urla, ambulanze, sirene della polizia tanto che lei, ora, quando ogni sera la mettono a nanna, chiede e poi richiede e chiede ancora se porte e finestre sono chiuse, ma proprio chiuse bene: siete sicuri?

Sono le case-comunità gestite dall’Associazione CAF, il Centro aiuto ai minori e alla Famiglia in crisi, voluto nel 1979 da Ida Borletti con un obiettivo esplicito: «Spezzare la catena di dolore che troppo spesso trasforma questi minori gravemente maltrattati in adulti violenti o trascuranti, offrendo loro nuove e più serene prospettive di crescita». Chi è vittima di violenza da piccolo, spesso, è condannato due volte. Prima subisce, poi replica. Il Tribunale dei minori affida i bambini ai Servizi sociali e i Servizi li portano (anche) qui, in via Orlando, quartiere Gratosoglio. Era un asilo del Comune, prima. Nel 2006, grazie alle tante donazioni di cui il CAF vive (e per cui si ingegna con mille progetti), la sede è stata completamente ristrutturata e divisa in tre appartamenti con i nomi delle favole: Gnomi, Elfi e Folletti. Circa 250 metri quadrati l’uno, tre camere a due o tre letti, ognuno con scampoli di vita da tenere almeno incollati al muro, foto, una scatola ormai vuota: «Buon Natale», firmato «mamma». Pezzi. Da ricordare o da dimenticare o tutto insieme. Accanto la stanza dove dormono gli educatori, i bagni, la sala da pranzo. Al muro un cartellone, due mani che si incrociano su un cuore e sotto il titolo «Su le maniche». Ogni compito ha la sua tariffa. «Raccogliere le foglie in giardino» vale 5 euro, un euro per «Svuotare o riempire la lavastoviglie». Qui hanno trovato questo modo per insegnare il «chi sbaglia paga», interiorizzare il valore delle cose. Il dispetto, il giocattolo rotto in uno scatto d’ira ha un valore e un costo. Quanto? Viene valutato dagli operatori e poi deve essere ripagato con un’azione utile per la comunità. Qui le regole sono come i sogni, vanno imparati. A volte proprio dall’abc dei sentimenti e dei riti. C’è chi non è stato mai educato a lavarsi, chi ad andare a dormire. C’è chi non è mai andato a scuola, chi non ha mai vissuto in una famiglia, in una casa degna di questo nome. C’è chi è rimasto i primi anni della sua vita in una di quelle comunità che ospitano madri e figli e dopo è arrivato qui. Da solo. Qui dove a Natale avevano scritto, come tutti i bambini del mondo, la loro letterina. «Caro Babbo Natale, vorrei…». E i desideri sono stati esauditi. Tutti. Bambole, macchinine, giochi, specchi per immaginare un mondo bello e possibile. A guidare la slitta con i regali, l’intera equipe di educatori (solo qui sono 21) e professionisti, un centinaio per gestire tutte le Comunità dell’Associazione CAF. Tutti assunti, ai quali si aggiungono i volontari arruolati per giocare, aiutare a fare i compiti, per accompagnare i ragazzi nel pomeriggio a calcio, a danza, tennis, equitazione, musica, quello che vogliono. Realizzare sogni fa parte del percorso che deve non solo e-ducare, nel senso etimologico del «tirare fuori» la felicità. Ma prima deve mostrare che esiste, strappandola a forza di timidi sorrisi. Come posso fidarmi di chicchessia se chi mi doveva volere più bene al mondo mi ha trattato così? La sera, tutti seduti a tavola, tra una risata e un «mi puoi passare l’acqua» si deve rispondere anche a queste domande. «Non voglio più andare in carcere a trovarli. Mi hanno scocciato, è la terza volta che finiscono dentro».

Parlano del «mio giudice» e della «mia assistente sociale», qualcuno condivide tanto. Qualcun altro mette in tavola solo il silenzio. Il «trigger» sanno tutti cos’è. Come Giulia (nome di fantasia), ogni sirena che passa le innesca orrende riattivazioni traumatiche e rivomita il terrore per le botte della mamma. Occhi nascosti dietro una frangetta troppo lunga che vanno guardati e convinti da ora, e per sempre, che non è colpa sua se veniva picchiata. Per esempio. Poi però i giorni scorrono anche uguali a quelli di tutti i bambini. I ragazzi delle medie sono i primi a svegliarsi, alle 7, i vestiti pronti dalla sera prima, come lo zaino. Tutti vengono accompagni a scuola. Nessuno di loro è in classe insieme, ma tutti nelle scuole lì intorno. Il pomeriggio compiti, sport, compagni che vanno e vengono. Dalle medie in poi hanno il permesso di avere un telefono, ma senza sim, i social sono vietati. Loro battagliano come battagliano tutti i loro coetanei dalle vite più facile. Regolarmente ci sono gli incontri con i genitori, protetti e in altri luoghi. D’estate vanno in vacanza tutti insieme, due settimane in Romagna. Il contributo pubblico per l’accoglienza offerta dall’Associazione CAF copre il 48 per cento di tutte le spese, ma tutto il resto dei 150 euro al giorno necessari per pedagogisti, psicologi, attività, vengono recuperati con la raccolta fondi dai privati, la campagna di Natale, aste di fotografie, cene di gala, concerti benefici. Finché alla fine non arriva il momento di tornare a casa o andare in affido. Spesso i tempi del tribunale non sono quelli di cui hanno bisogno bambini. «Perché il mio giudice mi ha dimenticato?». Ha 9 anni e con il fratello di appena due anni più grande sa già perfettamente che mamma e papà non saranno in grado di prendersi cura di loro. Sanno tutto. E cosa sia quel tutto, non lo vogliamo neanche sapere. Una consapevolezza esageratamente adulta, ma condivisa dagli adulti che hanno presentato la richiesta per l’affido. Ma il decreto, l’altro, quello di uscita per aprire le porte di una nuova vita, tarda ad arrivare. Proprio in questi giorni sono state sbloccate tre pratiche, raccontano, che erano ferme da almeno un anno e mezzo. Qui tutti lavorano perché alla fine finisca tutto bene. Un bene ricucito addosso a ognuno. Giovanni aveva 10 anni quando è arrivato qui. Era il più grande di parecchi fratelli, in una famiglia di abusi, violenza e trascuratezza. Nel mezzo della notte quando in casa si scatenava l’inferno era capace di far alzare tutti i più piccoli, prenderli per mano e portarli a dormire al parchetto sotto casa. Tre anni al CAF, poi a 13 l’affido, diventato a 18 adozione. Oggi ha finito gli studi all’estero, viaggia, parla 9 lingue, ma sempre, ogni anno, torna in quella casa in fondo a via dei Missaglia.

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