La Trilogia di Thomas mi riporta al tempo delle giacche Belstaff e delle segreterie telefoniche, al tempo delle signore in pelliccia e delle stecche di sigarette, al tempo delle pagine dei morti sui giornali, al tempo degli articoli ritagliati, al tempo di Papa Giovanni Paolo II… Al tempo in cui Vitaliano Trevisan non mi piaceva. Del grande scrittore veneto, nato a Sandrigo, Vicenza, nel 1960, e morto suicida a Crespadoro, sempre Vicenza, nel 2022, la Trilogia riunisce i primi tre romanzi-non-romanzi: Un mondo meraviglioso, I quindicimila passi, Il ponte.
L’esordio, che è del ’97, non lo avevo mai letto: a mia parziale discolpa ricordo che uscì con una piccola casa editrice. Il secondo invece lo lessi, forse perché meglio pubblicato (era già l’Einaudi) e meglio recensito. Dopo averlo letto lo buttai via, ebbene sì, feci questa cosa universalmente riprovata: «Non si buttano i libri! Piuttosto regalali!». Solo che io non volevo regalarlo, volevo farlo sparire, non volevo contribuire alla circolazione di frasi come questa: «L’unica cosa che raggiunge il cielo, nello spaventoso buco di provincia che è il nostro comune, ma anche tutta la provincia e certamente l’intera regione del Veneto e in definitiva tutta la nazione, è la puzza del cattolicesimo».
Oggi rileggo il primo Trevisan alla luce della sua morte e dei suoi libri ultimi, in particolare di Works, raro esempio di libro italiano recente e importante, se non importantissimo. E non mi sembra più così colpevole. Vedere scritto Dio con la D minuscola mi dà ancora fastidio ma verso le tirate contro preti e suore sono più indulgente. Può darsi che nelle scuole religiose, all’asilo, alle medie, abbia davvero subito traumi, e sulla tendenza al vandalismo di tanto clero contemporaneo mi tocca dargli ragione: «Il teatro Roi, caduto poi nel corso del tempo sotto le sgrinfie dei preti che, cattolicamente, l’hanno distrutto. I preti del resto, pensavo, distruggono sempre tutto». Di questo piccolo teatro della profonda provincia veneta non so nulla ma so qualcosa delle tante chiese anche recentemente massacrate per il cosiddetto adeguamento liturgico (la protestantizzazione della messa iniziata col Vaticano II e con Bergoglio certo non conclusa) che ha causato distruzioni di antichi altari e barocche balaustre. Centinaia di parrocchiali, a volte anche cattedrali e basiliche, sventrate con la benedizione di vescovi e sovrintendenti.
Ormai so che a Trevisan non andava bene niente e nessuno. Non ce l’aveva soltanto con la Chiesa cattolica, ce l’aveva con la società tutta. Scrive Emanuele Trevi nella postfazione: «Nei protagonisti dei libri di Thomas il tratto significativo che prevale è una condizione di perenne dissidio con il mondo». E sebbene Trevi parli di «prima persona fittizia» il personaggio non mi sembra molto diverso dall’autore. Non lo dico per via di un incontro lontano e breve (al Caffè Pedrocchi di Padova, dopo la presentazione del libro collettivo I nuovi sentimenti) ma per ciò che ho ricavato dalle interviste, dagli articoli post mortem, dagli ultimi titoli dove l’autobiografismo si fece esplicito. Lo fa capire lo stesso postfatore, descrivendo Trevisan così: «Gli mancavano le due virtù (o i due vizi capitali) essenziali allo stare in società: l’ipocrisia e la condiscendenza».
Mancano anche a Thomas.
Completamente. Di conseguenza Un mondo meraviglioso non descrive un mondo meraviglioso, anzi. Se il titolo traduce la famosa canzone di Louis Armstrong, il testo comincia e finisce in ospedale. In mezzo ci sono l’ossessivo camminare e l’ossessivo ragionare del protagonista, cassintegrato vicentino. Dunque c’è il Parco Querini dove Papa Giovanni Paolo II celebrò una grande messa, c’è la Tipografia Rumor sopra la quale abitava il presidente del Consiglio, c’è il Ponte degli Angeli da cui Thomas in preda all’ira getta un Dostoevskij troppo voluminoso. Allora non sono soltanto io a buttare i libri… La descrizione del crescente nervosismo è da antologia: «Quel sabato particolare vagavo per le strade di Vicenza tenendo in mano i Fratelli Karamazov, continuando a passare i Fratelli Karamazov dalla mano destra alla mano sinistra, poi tenendoli con tutte e due le mani dietro la schiena, quindi ripassandoli nella mano sinistra lungo il fianco per poi riprenderli nella mano destra, sempre lungo il fianco. Tentavo di metterli in tasca, ma in tasca non c’era verso di farli stare. Avrei dovuto piegarli, accartocciarli, cosa impossibile: le oltre mille pagine dei Fratelli Karamazov nell’edizione tascabile Einaudi, completati, come se Dostoevskij non bastasse, dal saggio di Sigmund Freud Dostoevskij e il parricidio, non si lasciavano piegare né accartocciare né tanto meno intascare».
Ricordiamoci che Un mondo meraviglioso è stato scritto prima dello smartphone. Oggi tutti, ovunque, sempre, hanno in mano quel maledetto telefono e una scena del genere risulterebbe ancora più improbabile. O forse Thomas, malato di intransigenza, non si sarebbe arreso al digitale e ancora adesso camminerebbe con le mani occupate da grossi libri di carta. Comunque, tornando al 1997: «Così non posso assolutamente andare avanti, pensavo, ed ero così incazzato con i Fratelli Karamazov per il fatto di dovermeli portare continuamente in mano che, passando sopra ponte degli Angeli, preso da un accesso di irritazione mi fermai di colpo, mi avvicinai al parapetto e senza pensarci su due volte scagliai i Fratelli Karamazov e naturalmente anche il saggio di Sigmund Freud, nelle acque fangose del Bacchiglione». Il tetro Trevisan ha di questi risvolti comici…
Ospedali e riflessioni sulla morte non mancano nemmeno negli altri due libri: ne Il ponte appare la morte di Thomas Bernhard, modello di scrittura e finanche onomastico, in I quindicimila passi si coltiva l’idea di un saggio sul suicidio. Eppure la Trilogia di Thomas non mi ha messo voglia di farla finita, fosse così non la consiglierei a nessuno. Al contrario, scaturisce dalle sue pagine un’allegria di naufragi. Da un testo all’apparenza sconfortante sono uscito sorridente: è la potenza dell’arte e si chiama catarsi.