“Lasciate suonare russi e israeliani”

"Lasciate suonare russi e israeliani"

Lunedì, il direttore d’orchestra Riccardo Chailly inaugura la Stagione di concerti della Filarmonica della Scala, ente privato sbocciato 42 anni fa nel grembo della Scala, teatro che ha per sovrintendente e direttore artistico Dominique Meyer, mentre al timone musicale c’è Chailly. Per il primo il mandato scade fra un anno, per il secondo fra due. Poi? Silenzio. Perché proprio entro gennaio il cda scaligero deciderà se prolungare o no il contratto del sovrintendente alle cui sorti potrebbero essere legate – ma non è un automatismo – anche quelle del direttore musicale.

Chailly per lunedì ha scelto un programma francese, con pagine di Ravel e la Et exspecto resurrectionem mortuorum che Messiaen scrisse a commemorazione delle vittime delle due guerre mondiali.

E di fatto stiamo vivendo una guerra mondiale a pezzi.

«In tal senso, è un brano orrendamente attuale, un grido abrasivo di quasi trenta minuti, con tante scosse telluriche, di violenza inaudita al punto che il compositore auspicava venisse eseguito all’aperto, in alta montagna. Si passa dalle grida di anime dal purgatorio alla Resurrezione di Cristo, compare lo Uirapuru, l’uccello che canta solo prima di morire, poi si assiste al sorgere dei morti, con il sigillo dei tre colpi di gong. Il finale comunica una speranza disperata di resurrezione».

Vi sono musicisti di Paesi in guerra, dalla Russia a Israele, messi a tacere. Non crede che anche gli artisti più scomodi dovrebbero potersi esprimere?

«Mi auguro che tutto questo cessi al più presto. Stiamo vivendo un’aberrazione mondiale di isolamento, di mancanza di comprensione umana, cosa che sta estenuando il mondo e non solo la musica e i musicisti che dovrebbero godere di piena libertà».

La Scala, con apice nella sua Prima, è un teatro che mette tanta pressione. È giustificata?

«La pressione è inevitabile considerato quel che la Scala rappresenta nel mondo, va sicuramente dominata. Questo tipo di sensazione l’ho vissuto anche con le orchestre e le istituzioni internazionali che ho rappresentato stabilmente».

Quali le gioie e i dolori dell’essere il numero uno della Scala?

«Vivo quotidianamente l’esigenza di non deludere mai le aspettative: le mie anzitutto, dei musicisti, quindi del pubblico. Il punto è trovarsi quotidianamente di fronte alla volatilità dell’esperienza del far musica dove non esistono certezze».

Siamo nell’Italia degli antagonismi. Eppure il Suo teatro ospita colleghi con cui vi sono confronti continui, ma anche tensioni, penso a Riccardo Muti, alla Scala a fine gennaio, e a Daniele Gatti, atteso in aprile

«Da sempre sostengo che un grande teatro debba invitare i maggiori musicisti al di là dei personalismi. Bisogna avere sempre come obiettivo la progettualità che rappresenti l’identità del teatro».

A bocce ferme: cosa l’ha convinta di più del Don Carlo della Prima della Scala? Qualcosa che Le ha fatto esclamare: «questo ha proprio funzionato».

«È stato un viaggio epocale per tutti, ma anzitutto per l’orchestra. Le turbolenze umane, politiche e drammaturgie dell’opera sono state raccontate dall’orchestra, che per duttilità e flessibilità ha dato una prova formidabile, ma altrettanto posso dire del coro. A tutto questo si aggiungono i cantanti di un cast straordinario».

La regia ha però raccolto alcuni dissensi…

«Da sempre vi sono discussioni intorno alle regie, non mancarono neppure con l’Aida che feci nel 2006 con Zeffirelli. Eppure la vissi con grande emozione non solo per la grandezza dell’opera ma anche per la collaborazione unica e irripetibile con Franco Zeffirelli».

Sente la differenza tra i pubblici scaligeri della Filarmonica e dell’opera?

«Entrambi lasciano intendere una consapevolezza d’ascolto, danno la sensazione di concentrazione. Avverto una grande attenzione da parte di entrambi i pubblici. In fondo è una questione di frequentazione e della qualità dell’offerta».

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