La trappola a Biden. Così l’Iran attira l’America nel conflitto

La trappola a Biden. Così l'Iran attira l'America nel conflitto

Joe Biden e gli Usa sembrano caduti mani e piedi nella trappola iraniana. Dopo tre mesi passati a cercar di garantire una reazione israeliana più misurata su Gaza e a evitare ogni «escalation» sul fronte libanese, l’America e il suo presidente si ritrovano direttamente coinvolti nel conflitto mediorientale. Un conflitto di cui contribuiscono ad aprire un nuovo fronte denso d’incognite. Certo, puntare il dito contro l’Amministrazione Biden accusandola di avventurismo militare e diplomatico sarebbe ingiusto. Da grande potenza chiamata a garantire le rotte commerciali e i traffici marittimi l’America non poteva esimersi dall’intervenire.

La Casa Bianca non ha compreso, però, la sofisticata manovra strategica della Repubblica Islamica. Trascinandola nel conflitto, Teheran non ne ha soltanto ridimensionato la capacità negoziale, ma è riuscita anche a spostarne la potenziale reazione armata dal Libano, dove operano gli indispensabili alleati di Hezbollah, a uno Yemen controllato dai ben più spendibili miliziani Houthi. Su questo piano, l’Iran ha giocato una partita impeccabile. Da una parte ha convinto Hezbollah a contenere la propria reazione, sia quando Israele è intervenuta a Beirut eliminando il numero due di Hamas Saleh Al Arouri, sia quando ha colpito alcuni dei suoi più importanti comandanti. Dall’altra parte contribuendo con la propria intelligence e con i propri missili alle incursioni contro le flotte mercantili nel Mar Rosso, Teheran ha trasformato le milizie Houthi nell’elemento apparentemente più destabilizzante del conflitto, spostando su di loro l’attenzione di Washington e Londra.

La risposta anglo- americana, seppur obbligata, arriva, però, fuori tempo massimo. Una risposta immediata sarebbe stata considerata doverosa e inevitabile. Una reazione decisa dopo uno stillicidio lungo due mesi appare, invece, come un potenziale e pericoloso allargamento del conflitto. Senza contare che il ritardo finisce con il certificare – oltre all’impotenza dissuasoria di Washington – anche l’impunità delle milizie sciite yemenite e del padrino iraniano capace di muoverle da remoto. Lo scacco strategico diventa ancor più ampio se analizzato in un contesto geopolitico globale. Ritrovarsi coinvolti nella palude mediorientale alla vigilia del voto a Taiwan e poche ore dopo aver annunciato di non poter più mandare aiuti militari all’Ucraina equivale a garantire mano libera a Pechino e Mosca. Se i primi raid americani si riveleranno insufficienti a fermare le incursioni dei miliziani filo-iraniani, Usa e Gran Bretagna dovranno concentrare tutta la loro attenzione strategica sul Mar Rosso. In quel caso Vladimir Putin e Xi Jinping saranno i primi ad approfittarne. Il presidente russo sarà inevitabilmente attratto dall’opportunità di sfondare le difese ucraine senza far i conti con gli aiuti della Nato e della coalizione guidata da Washington. Xi Jinping potrebbe, invece, approfittare del dopo elezioni a Taiwan per intervenire militarmente. O, più raffinatamente, sfruttare una vittoria dell’opposizione per attrarre Taipei nelle propria sfera d’influenza e riconquistarla con le stesse strategie impiegate ad Hong Kong.

L’intervento nello Yemen rende più complessa anche l’azione diplomatica americana sullo scenario mediorientale. I raid anglo-americani stentano, infatti, a generare consensi persino tra quelle nazioni arabe sunnite che considerano l’Iran sciita e i suoi alleati come potenziali nemici. Significativo, da questo punto di vista, il distacco di un’Arabia Saudita che – dopo aver guidato fino al 2022 una guerra contro gli Houthi durata nove anni e costata centinaia di migliaia di morti – si è ben guardata, ieri, dall’applaudire l’intervento anglo-statunitense.

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