Orgoglio o compromesso. Perché il voto di Taiwan può cambiare gli equilibri (e mettere in crisi gli Usa)

Taiwan, Lai presidente. Biden "Non sosteniamo l'indipendenza". Cina: "riunificazione inevitabile"

L’espressione «venti di guerra» è uno dei più logori e abusati luoghi comuni del giornalismo. Nel caso di Taiwan, però, dove domani si vota per eleggere democraticamente un nuovo presidente, essa è purtroppo fondata.

Sull’isola, che rappresenta orgogliosamente un modello alternativo alla dittatura comunista che domina nella gigantesca Repubblica cinese sulla terraferma, spirano venti minacciosi da Pechino, ma non solo: l’annunciata riunificazione forzosa di Taiwan dev’essere infatti considerata all’interno di un più vasto contesto bellico che già caratterizza questo plumbeo 2024. Un potenziale terzo fronte dopo quello ucraino e quello mediorientale di quella «guerra mondiale a pezzi» contro l’Occidente dichiarata di fatto da un nuovo Asse delle autocrazie composto da Russia, Cina e Iran, integrati da alleati minori come Corea del Nord, Siria, Venezuela e Cuba, e da Stati vassalli come la Bielorussia.

Quattro anni fa, i taiwanesi avevano eletto Tsai Ing-wen, una nazionalista filo-occidentale tutta d’un pezzo: avevano appena assistito con orrore alla repressione delle proteste pro-democrazia a Hong Kong da parte del regime di Pechino, che aveva colto l’occasione per liquidare le parziali libertà civili in quella ex colonia britannica cui aveva promesso il mantenimento, fino al 2047, della formula «un Paese, due sistemi». Di fronte alle retate di esponenti politici, giornalisti e studenti e all’instaurazione di un rigido regime di assimilazione che significava la rapida fine della Hong Kong libera fino ad allora conosciuta, a Taiwan si convinsero che di Xi Jinping non ci si poteva fidare. Si affidarono all’abbraccio con gli Stati Uniti, con tutte le ambiguità e le complicazioni che ne conseguivano.

Sì, perché se esiste nelle relazioni internazionali uno status quo intricato, quello di Taiwan è certamente da primato. L’isola che sorge di fronte alla Cina continentale vasta una volta e mezzo la Lombardia ma con ben 24 milioni di abitanti e una fiorentissima economia oggi imperniata sull’industria dei microprocessori è dal lontano 1949 uno Stato indipendente, erede della Cina nazionalista di Chiang Kai-shek, sconfitta nella guerra civile dai comunisti di Mao Zedong. Negli anni Settanta, però, prevalse a Washington una radicale svolta di Realpolitik: gli Stati Uniti decisero di riconoscere ufficialmente la Repubblica Popolare e ritirarono il loro ambasciatore da Taipei. Da allora, a parole, Washington riconosce l’esistenza di una sola Cina, di cui Taiwan è parte. Questo però non significa che, più o meno sottobanco, gli americani abbiano mai cessato di garantire l’indipendenza di fatto dell’isola filo-occidentale, armandola e lasciando sempre intendere che sarebbero venuti in suo soccorso se Pechino l’avesse nuovamente aggredita per annetterla (Mao ci aveva provato più volte, senza successo).

Quel tempo è ormai arrivato. Da anni, e con crescente esplicita insistenza, Xi ripete che Taiwan dovrà «tornare alla madrepatria», con la forza se necessario: un falso storico patente, perché l’isola non è mai stata governata dai comunisti cinesi ed è anzi diventata una società libera e apertissima. E negli ultimi tre-quattro anni, ogni volta che un esponente politico americano o europeo ha incontrato i colleghi di Taipei, Pechino ha sempre reagito con minacce militari, inviando flotte di navi da guerra a circondare l’isola e facendola sorvolare da aerei carichi di bombe.

Le elezioni di domani vedranno sfidarsi due visioni alternative per il futuro di Taiwan, che di queste minacce devono tener ampio conto. La prima rappresentata da William Lai del partito indipendentista di fatto Dpp consiste nella continuità con la linea attuale della presidente uscente Tsai: stretta alleanza con i protettori Usa e rinuncia a proclamare l’indipendenza solo perché essa esiste già nei fatti e gli americani non gradiscono provocare Pechino. La seconda è incarnata da Hou Yu-ih, sindaco del grande municipio di New Taipei e candidato del Kuomintang: è il grande paradosso di queste elezioni, perché il partito duro e puro della guerra civile contro i comunisti e della pretesa nazionalista durata fino a pochi anni fa di rappresentare legalmente da Taiwan l’intera Cina è oggi il fautore di un compromesso con la dittatura rossa di Pechino.

Hou afferma che Taiwan deve cercare un’intesa con Xi, seguire la via della pace e della prosperità invece di quella di una guerra certa che continuando ad affidarsi all’alleanza con gli Stati Uniti arriverebbe entro pochi anni. Per questa ragione, è il candidato preferito a Pechino, che ha giocato ogni genere di carta per favorirlo: dalle esplicite minacce alle fake news online ai «consigli personali» di Xi Jinping ai taiwanesi affinché scelgano «il candidato giusto».

Il punto è che non si capisce di quale compromesso potrebbe mai trattarsi. A differenza di Vladimir Putin, che vuole annettersi l’Ucraina ma usa un linguaggio studiatamente ambiguo in proposito, Xi è chiarissimo: nessun compromesso sul fatto che Taiwan sia parte della Repubblica popolare cinese e debba «ritornarvi» con qualsiasi mezzo. La riunificazione morbida prospettata dal Kuomintang, dunque, sarebbe nel giro di qualche anno nient’altro che la fotocopia dell’assimilazione già vista a Hong Kong.

I sondaggi vedono in vantaggio Lai, ma con margine risicato: non solo perché un numero crescente di taiwanesi comincia a temere la guerra, ma perché il terzo candidato indipendente, Ko Wen-je, sembra in grado di attirare a sé circa il 20 per cento dei voti, scombinando i giochi. Tutti si chiedono cosa accadrà in caso di vittoria nazionalista: facile prevedere non solo una ripresa delle pressioni militari cinesi, ma anche di quelle diplomatiche per isolare Taiwan (che è tuttora riconosciuta nel mondo da una decina di piccoli Paesi in alternativa a Pechino), senza escludere un tentativo di strangolamento economico.

Un vero e proprio attacco militare non sembra imminente, ma nulla può essere escluso. Il caso Taiwan va considerato all’interno della sempre più evidente pressione militare esercitata dal già citato Asse sugli Stati Uniti. Una pressione che è concordata a livello di leader, che scommettono sulla capacità di mettere in difficoltà la superpotenza militare Usa nell’unico modo efficace: obbligandola a impegnarsi contemporaneamente su più fronti. Xi potrebbe dunque cogliere l’attimo in cui Joe Biden, già restio a trascinare il suo Paese in guerra in Medio Oriente e nell’Europa orientale, si trovasse costretto a scegliere quale fronte privilegiare per la difesa degli interessi americani. Un rischio comunque altissimo: come tutti i dittatori, l’ormai ultrasettantenne Xi ambisce a passare alla storia per le sue conquiste territoriali, ma aver fretta con Taiwan potrebbe costare molto caro a lui e spingere il mondo intero verso un gigantesco conflitto.

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