Ilva, così Conte ha svenduto agli indiani

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Il ministro per il Made in Italy Adolfo Urso svela i contenuti del patto leonino sull’ex Ilva siglato nel 2020 dall’allora governo Conte 2 con il socio privato Arcelor Mittal e tenta di farne carta straccia con «un intervento drastico che segni una svolta netta rispetto alle vicende per nulla esaltanti degli ultimi 10 anni». L’annuncio, contenuto in una informativa al Senato, è ricco di particolari importanti e la strada dell’amministrazione straordinaria viene ribadita. Questo anche se, in serata, è trapelata l’ipotesi che sia allo studio prima un divorzio consensuale con ArcelorMittal per evitare un lungo contenzioso legale. Entro mercoledì si decide.

«Siamo in un momento decisivo che richiama tutti al senso di responsabilità. Nessuno degli impegni presi è stato mantenuto dal socio privato in merito all’occupazione e al rilancio industriale. Dobbiamo invertire la rotta cambiando equipaggio dell’ex Ilva di Taranto», ha detto il ministro in Aula garantendo una «ricostruzione l’ex Ilva competitiva sulla tecnologia green su cui già sono impegnate le acciaierie italiane, prime in Europa».

Un passaggio preceduto dalla rivelazione di alcuni importanti dettagli del contratto siglato nel 2020 e che ha regolato fino a oggi in modo fortemente sbilanciato i rapporti tra i soci di AdI (ex Ilva): Arcelor Mittal al 62% e Invitalia al 38%.

Tutto inizia nel luglio del 2019 quando l’allora ministro per lo Sviluppo economico Luigi Di Maio revoca lo scudo penale, ovvero quella norma che garantiva (ai nuovi soci) la non punibilità per reati compiuti da altri a Taranto (reati di natura ambientale, ndr). «La decisione sulla rimozione dello scudo penale pose ArcelorMittal in una posizione di forza nei confronti del governo», spiega Urso. «E di fronte alla minaccia di abbandonare il sito e in assenza di alternative, nel marzo 2020 il governo Conte 2, ministro Patuanelli, avvia una nuova trattativa con gli investitori franco-indiani da cui nascerà Acciaierie d’Italia con l’ingresso di Invitalia al 38% e con la sigla di patti parasociali fortemente sbilanciati a favore del soggetto privato. Patti che definire leonini è un eufemismo – precisa Urso Nessuno che abbia cura dell’interesse nazionale avrebbe mai sottoscritto quel tipo di accordo. Nessuno che abbia conoscenze delle dinamiche industriali avrebbe accettato mai quelle condizioni». Urso svela come al socio privato fosse riservato il voto decisivo su sette materie su otto e che, secondo gli accordi, anche a maggio 2024 con la prevista salita in maggioranza dello Stato quest’ultimo non potesse nominare un amministratore di propria fiducia o vendere più del 9%. Un’eventuale compravendita poteva essere completata solo con soci esclusivamente finanziari e non appartenenti al settore dell’acciaio.

Il ministro ha poi chiarito che dopo il «no« di lunedì scorso alla ricapitalizzazione, «Arcelor Mittal si è dichiarata disponibile ad accettare di scendere in minoranza, ma non a contribuire finanziariamente in ragione della propria quota, scaricando l’intero onere finanziario sullo Stato ma, nel contempo, reclamando il privilegio concesso negli originali patti tra gli azionisti realizzati quando diedero vita ad Acciaierie d’Italia di condividere in ogni caso la governance, così da condizionare ogni ulteriore decisione. Cosa che non è accettabile». Tanto più che in India, Arcelor Mittal Nippon Steel India costruirà il più grande impianto siderurgico al mondo con una capacità di 24 milioni di tonnellate annue.

Tornando all’Italia, ora il governo ha scoperto le carte e dopo l’avvio del commissariamento a tempo a cui lavora l’esecutivo, ha chiarito anche nell’incontro con i sindacati di ieri sera che intende sviluppare «un piano siderurgico nazionale costruito su quattro poli complementari»: Taranto, Terni, Piombino e le acciaierie del Nord Italia. Il 18 gennaio convocato un nuovo vertice.

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