Le modifiche fatte in Commissione giustizia sono solo un assaggio di quelle più radicali che interverranno con un nuovo Codice di procedura penale, e serviranno, principalmente, a rendere inequivoca l’applicazione del Codice vecchio, quello del 1989, che andava già bene come impostazione (e che dapprima risultò sgradito a toghe e giornalisti, allora come oggi) ma che la stessa Magistratura, dai primi anni Novanta, prese comunque a stravolgere rispetto alle originarie intenzioni del legislatore: non soltanto trasformando il carcere preventivo in regola, ma con interpretazioni di legge e giurisprudenze creative che di fatto riportarono un sistema che voleva essere accusatorio ossia con al centro il pubblico processo, e non le indagini nel sistema misto-inquisitorio che ci ritroviamo oggi, dove anche l’attenzione dell’opinione pubblica viene dirottata sulle fasi iniziali anziché sull’unica fase che dovrebbe importare, il pubblico dibattimento, con l’esibizione di prove o fonti di prova. Tra queste, ogni verbale o cartaccia disponibile e quindi le famose intercettazioni, che spesso riguardano soggetti che col processo (l’unico che conta, sempre che si celebri) non c’entrano più nulla, perché la loro posizione non è rilevante o è stata archiviata. La riforma Nordio sta solo intervenendo su ciò che si dovrebbe sapere o non sapere di un’indagine nelle sue fasi iniziali, anche per rafforzare il concetto di presunzione d’innocenza in un Paese, il nostro, spesso sdraiato su presunzioni di colpevolezza fomentate dai media.
CHI VUOLE LA RIFORMA
Chiunque mastichi a sufficienza di cose giuridiche o abbia seguito le cronache degli scorsi decenni, riconosce che la situazione italiana è sballata e ci mette in coda ai cosiddetti paesi civili. Nel giugno 2012 il Capo dello Stato Giorgio Napolitano disse che la questione «meritava già di essere affrontata», l’anno dopo nominò un gruppo di «saggi» secondo i quali l’uso delle intercettazioni andava senz’altro ridotto, e ancora lo stesso Napolitano, nel 2017, aggiunse che trattavasi di «una questione aperta da anni con sollecitazioni frequenti da parte delle alte istituzioni», precisando che «io personalmente ho messo il dito in questa piaga». Si riferiva a quando, per distruggere quattro sue telefonate private (di un Presidente della Repubblica) che erano state intercettate a margine del fallito defunto processo sulla trattativa Stato-Mafia, non bastò il buon senso dei magistrati, e dovette intervenire la Consulta. La storia recente ha dimostrato che per tutelare la dignità del prossimo non servono norme che invitino a farlo, ma che risolutamente obblighino a farlo.
CHI NON VUOLE LA RIFORMA
L’attenzione mediatica, da parte di alcuni magistrati, è divenuto un espediente per «pompare» un’inchiesta ricavandone esposizione e risorse, mentre quello di molti giornalisti è il riflesso difensivo di chi pensa che la pubblicazione di carte e intercettazioni sia un espediente residuale per far impennare le vendite. É tutto qui, non ci sono particolari aneliti di libertà o minacciati «bavagli» che peraltro sarebbero anche giustificati, per chi volesse rilanciare sciocchezze irrilevanti o esercitare una sorta di «controllo sociale» da esercitare sulla vita di qualsiasi persona di pubblico rilievo. Da qui la pretesa, da parte di pochi ostinati, di scovare tra le carte dei magistrati notizie di «interesse pubblico» da parte di redazioni ognuna delle quali, ovviamente, ha un diverso concetto di interesse pubblico. A tal proposito si ricorda il talento comico del legale del Corriere della Sera (poi avvocato del Fatto Quotidiano) che invitava i giornalisti a essere giudici delle intercettazioni che potevano pubblicare: nello stesso giorno (era il 2015) un quotidiano sparava in prima pagina «Le conversazioni dell’ex ministro ritenute irrilevanti».
CHE COSA DICE LA RIFORMA
Se un giudice non riconosce che una carta o un’intercettazione siano una fonte di prova (nell’unica sede che conta: il processo, non le indagini) non c’è motivo di gettarle in pasto all’opinione pubblica o all’interpretazione dei media. L’articolo 2 del disegno Nordio lo vieta espressamente, questo a garanzia di chi nella finalità del processo (appurare un reato) non ha più un ruolo o non l’ha mai avuto. Al giornalista resterà il compito che è sempre stato suo: capire e far capire, anziché fare dei copia/incolla di quello che sostiene l’accusa e solo l’accusa, che è, e resterà eventualmente, da verificare da parte di un giudice. Anche le informazioni personali o le suggestioni montate ad arte che indichino spesso colpevolezze che non si riveleranno tali, ma sempre troppo tardi, e male.