Gioco stupendo. Gingillo in bocca una poesia di Dylan Thomas, Non avendo scritto parole (On no work of words). «Avere e dare è tutto, restituire ciò che è stato dato voracemente», scrive il poeta. E poi: «Accumulare e deporre i tesori umani è compiacere la morte». La mente – entità dalle molteplici zanne, dalle millenarie zampe – va a una poesia di Boris Pasternak, Essere rinomati non è bello. «Scopo della creazione è il restituirsi,/ non il clamore, non il gran successo», scrive il poeta, nella versione onnipossente di Angelo Maria Ripellino. E poi: «Ma occorre vivere senza impostura,/ vivere così da cattivarsi in fine/ l’amore dello spazio, da sentire/ il lontano richiamo del futuro». Che meraviglia. Nei miei sogni, Boris Pasternak e Dylan Thomas passeggiano insieme, nei boschi, entro un fraseggio di abeti e di poiane, bloccandosi, ogni tanto, a bere. I dintorni di Laugharne, «remoto e oblioso luogo di aironi, cormorani, fortezza, cimitero, gabbiani, fantasmi, faide, terrori, scandali, ciliegi» (così Thomas), non sono troppo diversi dai recessi di Peredelkino, la campagna in cui Pasternak preferì ritirarsi.
Non potremmo pensare a poeti più distinti e distanti: il Dioniso del Galles e l’ineffabile Amleto russo. Invece. Entrambi, con micidiale esuberanza linguistica, senso cosmico, gusto per la fiaba e per la profezia, per l’allusione e l’arte delle corrispondenze, insegnano – direbbe il poeta Andrea Temporelli, al quale rubo l’assunto – che «la poesia non salva la vita. Alimenta la vita in sé stessa, semmai». «Non devi recedere d’un solo/ briciolo dalla tua persona umana/ ma essere vivo, nient’altro che vivo», scrive Pasternak. Quasi le stesse cose dice Dylan Thomas alla Bbc, nel 1946: «Un poeta è poeta soltanto per una minuscola parte della sua vita; per il resto è un essere umano, e uno dei suoi doveri è di conoscere e di sentire quanto più è possibile tutto ciò che si muove intorno e dentro di lui, così che la sua poesia possa essere il suo tentativo d’esprimere il culmine dell’esperienza umana in questa nostra strana terra».
Non avendo scritto parole fa parte di The Map of Love, raccolta stampata da Dent nel 1939, che assembla alcune delle poesie più note di Dylan Thomas: When all my five and country senses, After the funeral, How shall my animal. Otto anni dopo, il poeta è in Italia, a Firenze, a incenerire l’affollato – e un poco paludoso – parterre della poesia italica di allora. A scortare Dylan Thomas in quella rozza razzia toscana, tra la capitale e Rio Marina, fu Luigi Berti: poeta in itinere, traduttore di razza – sono ancora valide le versioni da Melville, Eliot e Robert Penn Warren -, bevitore taurino, da stare al passo alcolico del divin gallese. La gita di Dylan Thomas – specie di ricciuta cometa a indicare la via della poesia nuova – divenne leggenda; modificò il dire di alcuni poeti nostri, propensi a quel linguaggio sublunare. Furono sedotti dal Dioniso-Attila – traducendolo -, tra gli altri, Eugenio Montale, Piero Bigongiari, Mario Luzi. Negli stessi anni, tra il 1946 e il ’47, un giovanissimo Raffaele La Capria volta in italiano Dylan Thomas – «poeta mistico», scrive, che forgia una poesia «piena di invenzioni verbali, di una metafisica primitiva e di una interpretazione simbolicamente sensuale dell’universo» -, sulla rivista internazionale Sud (raccolgo queste informazioni da Fabrizia Sabbatini, che sta pubblicando gli esiti di un suo lavoro d’archivio).
Come a dire: esiste, per tradizione, un Dylan Thomas «italiano». Seguiranno i lavori miliari, divenuti canone, di Roberto Sanesi (che traduce Dylan Thomas nel 1954, per Guanda) e di Ariodante Marianni (nel 1965, per Einaudi). All’appello, tuttavia, pare incredibile, mancavano, fino ad oggi, diverse poesie del bardo di Swansea, diversamente dimenticate. Il lavoro di Emiliano Sciuba, curatore delle Poesie inedite di Dylan Thomas per Crocetti (pagg. 256, euro 18), fa dunque l’effetto dell’uovo di Colombo. Sciuba ha infatti recuperato ventidue poesie dalle raccolte ufficiali di Dylan Thomas – dal mitico esordio, 18 Poems, del 1934 a Deaths and Entrances del 1946 -, accantonate dai libri finora editi in Italia, insieme a un vasto vascello di Poesie sparse (1930-51) e di Poesie adolescenziali (1925-30), spesso di catartica bellezza.
Che immagine di Dylan Thomas ci assale da queste Poesie inedite? Un Dylan Thomas, se possibile, più selvaggio del risaputo: il bimbo eterno, figlio di un oracolo, che rotea la Bibbia come una scure, ossessionato dalla morte e dal sesso, dal verme e dall’angelo. Nella mitografia del poeta appaiono «figli dell’oscurità» che «non hanno ali», stelle cadenti, «gli arpeggi degli alberi», il cigno e il tuono, l’«uomo degli dèi», una folle folla di «piaceri sconosciuti», la lucciola e la lumaca, il «libertino sfrenato» e «coloro che non hanno altra voce che quella dei venti». Cupe poesie d’amore («Ieri notte ho tuffato per giorni il mio braccio/ Nel suo seno a elemosinare un cuore assente») si alternano a mirabilie gnostiche («La luce delle stelle e del sole non brillerà/ Così chiaramente come quella del mio cervello,/ Soltanto la vita si affievolirà, illuminando la morte./ Devo conoscere la luce della notte o impazzirò»). Allo stesso tempo: la levità del luna park e il rigore di un libro miniato; lo sberleffo e l’Apocalisse.
Anche le poesie giovanili di un poeta perennemente giovane come Dylan Thomas sono un forziere ricco di preziosi. Una poesia come No, piccione, sono troppo razionale vale l’intera raccolta; chiude così: «Io sono fedele alla terra,/ Toccare quello che deve essere toccato/ Imitare me stesso meccanicamente/ Facendo i miei piccoli giochi di parole ancora/ Con tutta la mia solita cura./ Nessun uccello per me:/ Vola troppo in alto». Chi ha dimestichezza con la tremenda precocità di Dylan Thomas vada a rileggersi Il bambino bruciato: vi si racconta di un prelato inglese, Rhys Rhys, che si innamora della figlia, fino a ingravidarla. L’incipit ustiona: «Dissero che Rhys Rhys stava bruciando il suo bambino quando un cespuglio di ginestre prese fuoco in cima alla collina».
Dylan Thomas aggrega con aggressione noi accattoni della luna, ammette soltanto una sequela di matti. Dylan Thomas non va capito: occorre capitolare nel poeta, che ricapitoli la nostra svenevole viltà. Va rapito, Dylan Thomas, va rubato – compiuti diciassette anni, svaligiai il portafogli della nonna inconsapevole per comprare il tomo delle Poesie e racconti edito nella NUE Einaudi: era il 1996, il libro costava sessantamila lire, un’enormità per le mie eremitiche tasche.
Perché, che senso ha, non ci sono cose migliori, più deste, da fare? No, miei ipocriti lettori. Dylan Thomas è l’ultimo poeta autenticamente «orfico», fautore di un verbo proferito per magia simpatica. Orfeo rabbonisce le fiere selvagge, accarezza le pene degli spettri, ricuce lo strazio che separa i regni. «Condusse ogni cosa nella gioia», come scrive Eschilo. Nient’altro vogliamo dalla poesia – l’eterna danza, il fragore della gioia.