Alla Pa non servono altri mega-concorsi. Ma premi e concorrenza

Alla Pa non servono altri mega-concorsi. Ma premi e concorrenza

È davvero grottesca la vicenda del concorso Svimez varato tre anni fa e che alla fine ha lasciato solo due ore di tempo ad alcuni candidati, affinché potessero rispondere on line e in tal modo avvalersi della riapertura delle graduatorie. Che l’apparato burocratico italiano funzioni male lo sapevamo da tempo: questa è stata solo l’ennesima conferma.

Il fatto di cronaca, però, obbliga a sviluppare qualche considerazione più generale, perché sullo sfondo di tali episodi non c’è soltanto un apparato di regole e dipendenti pubblici che fa acqua, ma pure l’illusione che la soluzione possa consistere nell’aumentare il numero di quanti lavorano per lo Stato e per gli innumerevoli enti che esso controlla e gestisce. È necessario, invece, cambiare paradigma.

In particolare, anche quanti non intendono sfoltire l’esercito dei dipendenti di Stato (come pure sarebbe opportuno) dovrebbero comprendere quanto sia necessario che all’interno della funzione pubblica siano introdotte logiche competitive e, di conseguenza, premiali. Ormai è evidente che sono opportune nuove regole e dovrebbero riconoscerlo anche quanti non credono nella superiorità morale del mercato sulle burocrazie, le quali si finanziano grazie all’imposizione fiscale.

Un primo cambiamento epocale consisterebbe allora nell’aprire tutta una serie di settori alla concorrenza dei soggetti privati. In breve, questo indurrebbe molti lavoratori statali a operare diversamente, spingendoli a lavorare meglio e soddisfare il pubblico.

Lo s’è visto, per evocare qualcosa che tanti hanno ben presente, nell’ambito del trasporto ferroviario, dove anche una presenza assai ridotta dei soggetti privati ha spinto il colosso di Stato a tenere in diversa considerazione le esigenze dei clienti.

Oltre a ciò, invece che immaginare nuove infornate di altri lavoratori pubblici (o pure di migliaia e migliaia di giovani con lauree e master) bisognerebbe valutare, ogni volta che ciò sia possibile, d’incamminarsi verso un modello di business che veda le singoli istituzioni statali finanziarsi da sé, grazie ai servizi resi ai cittadini.

Tanto per fare un esempio, se le università pubbliche vivessero soltanto delle rette che raccolgono direttamente dai loro studenti (rette che, ovviamente, dovrebbero essere più elevate) e non dei trasferimenti che giungono da Roma e provengono dall’imposizione generale, molte inefficienze sarebbero presto superate. Già Adam Smith, nel suo testo fondamentale del 1776 su La ricchezza delle nazioni, aveva sottolineato che perfino la qualità della giustizia è assai migliore dove i tribunali si finanziano grazie alle spese processuali sostenute da quanti s’indirizzano a loro.

Non sarà allora con nuovi altri mega-concorsi e neppure immaginando di attirare chissà quali competenze che avremo una funzione pubblica meno disperante e deludente. È urgente, però, che ci si diriga con coraggio verso soluzioni nuove, che valorizzino la voglia di fare e la capacità di assumere decisioni.

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