L’undici gennaio di 80 anni fa Galeazzo Ciano veniva giustiziato a Verona, insieme ad altri gerarchi fascisti che avevano tradito Mussolini il fatidico 23 luglio 1943. Fu una vendetta consumata a freddo e un dramma familiare, visto che Ciano era anche il genero del Duce, avendone sposato la figlia primogenita, Edda, che fino all’ultimo fece di tutto per scongiurare l’uccisione del marito, implorando suo padre.
Le raffiche non bastarono
Alle 9.25 una prima scarica di pallottole si abbatté su Ciano e sugli altri quattro condannati a morte. Ma ci fu un problema. “I sei fucilieri a lui riservati non riuscirono a freddarlo”, scrive Maurizio Sessa in “Sangue e famiglia. Edda Ciano Mussolini: amore e perdono” (Edizione Medicea di Firenze). “L’ultimo sguardo di Ciano, secondo la testimonianza di don Giuseppe Chiot (cappellano del carcere degli Scalzi, ndr) aveva turbato alcuni militi. Qualcuno, poco prima di sparare, si era segnato facendosi la croce. Galeazzo intanto era ancora vivo e rantolava”. Altri spari furono necessari, una seconda e terza scarica. E alla fine due o tre colpi di grazia per chiudere la storia, esplosi con la pistola dal comandante, il colonnello Nicola “Nino” Furlotti.
“Due o tre che fossero – scrive Sessa – scese un silenzio tombale appena infastidito dal ronzio della macchina da presa che si spegneva. Buona la prima, per forza, era anche l’unica scena visto non ci sarebbe stato modo di ripeterla. Era stata appena ‘girata’ la pellicola ‘Ciano sta per morire nel gennaio assassino di Verona’, un titolo da film francese per un copione italiano scritto a Berlino. Un diplomatico tedesco presente all’esecuzione commentò la scena dicendo che somigliava alla macellazione dei maiali”.
Terminata l’esecuzione don Chiot fu avvicinato da un militare: “Ci hanno fatto anche assassini, quei maledetti”. Un altro invece gli chiese: “Lei che sa tutto di loro, è proprio vero che sono i traditori della Patria?”. E un altro rispose: “A me è venuto un dubbio ed ho sparato in aria”. Ma ci fu anche chi, dopo la fucilazione, esclamò: “Giustizia è fatta”. Esattamente come l’indomani titolarono i giornali in prima pagina.
Poligono di tiro come un set cinematografico
Alle 8 del mattino di quell’undici gennaio nel carcere degli Scalzi di Verona il pubblico accusatore, Andrea Fortunato, entrò nelle celle di ciascun prigioniero per leggere la medesima fredda comunicazione: la domanda di grazia era stata respinta. Non c’era più nulla da fare. Basta speranze, solo la preghiera per chi credeva.
Ciano uscì dalla sua cella rassegnato. Salì sul torpedone parcheggiato davanti al carcere, insieme agli altri condannati, prima di raggiungere il poligono di tiro di Forte San Procolo. Sul posto erano già arrivati fotografi e cineoperatori, su ordine di Berlino, per immortalare quel momento. Il primo a vedere il filmato sarebbe stato Adolf Hitler, a Berlino, con i suoi uomini più fidati.
Le riprese erano state organizzate alla perfezione dai tedeschi, persino la luce era stata studiata, per ottenere immagini di buona qualità. L’unico problema, o meglio l’unico inghippo, fu per colpa degli italiani, i trenta militari del plotone che, intenzionalmente o meno (non lo sappiamo), neanche dopo due tentativi riuscirono a giustiziare i traditori. E pensare, scrive ancora Sessa, che per ciascun condannato a morte c’erano ben sei tiratori. In tutto trenta persone componevano il plotone.
E Mussolini? Al Forte San Procolo aveva mandato il suo segretario privato. Lui, e solo lui, avrebbe dovuto fargli sapere che l’esecuzione era avvenuta. In modo tale che, confermata la notizia, non ci fossero né dubbi né sospetti.
Davanti a un centinaio circa di “spettatori” i condannati furono fatti sedere a cavalcioni su alcune seggioline appositamente posizionate a dovuta distanza dal plotone. Ciano, diligente, chiese conferma della seggiolina dove avrebbe dovuto sistemarsi, in attesa degli spari: “Mi metto lì?“. Uno dei più nervosi di tutti era l’anziano Emilio De Bono, 78 anni, considerato dai fascisti uno dei traditori più grandi, poiché nell’ottobre 1922 era stato uno dei quadrumviri della Marcia su Roma. Lui che, per quasi ventidue anni era stato sempre al fianco del Duce, alla sua destra durante le sedute del Gran Consiglio, siedeva rassegnato su una seggiolina di legno, attendendo che un proiettile ponesse vita alla propria esistenza.
Ciano affidò a don Chiot, che gli impartì l’ultima benedizione, il suo testamento spirituale: “Muoio senza rancori con nessuno, dica ai miei figli che bisogna amare”. Nel preciso momento in cui scattò l’ordine “puntate”, il genero di Mussolini si voltò verso il plotone. “Un’immagine che ha fatto storia – scrive Sessa nel suo libro -. Guardò in faccia la morte senza insolenza. Cercava di scorgere Edda con i tre bambini? Era l’ultimo gesto di sfida oppure un atto di cristiana accettazione? Forse, Galeazzo volle semplicemente vedere cosa stesse succedendo…”.