“Le mie nuove canzoni celebrano un altro inizio”

"Le mie nuove canzoni celebrano un altro inizio"

Biagio Antonacci il suo sedicesimo disco si intitola L’inizio.

«In fondo dovremmo vivere ogni giorno come se fosse l’inizio».

Tra l’altro lei si scrive sempre tutti i brani.

«Stavolta il brano che dà il titolo all’album è di Giorgio Poi. Era già successo nel 2014 con Paolo Conte che aveva firmato Le veterane. Giorgio ha saputo che stavo per diventare padre di Carlo e ha scritto di getto bellissime parole. Voleva che completassi il testo, ma ho preferito lo facesse lui».

Sono trascorsi trent’anni esatti dal suo disco omonimo con veri classici Non è mai stato subito e Sei io, se lei.

«Mai come oggi per me fare musica è un regalo. Ormai vado in tournèe anche senza dischi nuovi da promuovere…».

Anno dopo anno Biagio Antonacci è diventato un «brand» riconoscibile al primo colpo. Cantautore di lunga gavetta, amatissimo dal pubblico femminile, lontano per vocazione da tanto snobismo della canzone d’autore, nelle 15 canzoni di L’inizio canta l’amore, talvolta la sua assenza e, in Anita, canta una donna «potente, emancipata, madre lavoratrice, combattente, complice, amante, moglie. Era la musa di Garibaldi e ha avuto il coraggio di morire da sola e di farlo scappare». E di amore Antonacci sa scrivere, non solo perché «a 14 anni scrivevo biglietti con frasi e poesie d’amore per tutti gli amici che non ci riuscivano», ma anche perché nelle nuove È capitato o Dimmi di lei ha saputo attualizzare la propria sensibilità e oggi canta l’amore come un uomo di sessant’anni che ama amare: «Ero lo scrittore dei pensieri d’amore e lo sono rimasto ancora oggi».

Nel disco ci sono tanti brani inediti ma anche pezzi già pubblicati come Seria, Telenovela e Tridimensionale in collaborazione con Benny Benassi.

«Si sta un po’ tornando agli anni Sessanta, quando si pubblicavano soprattutto brani singoli».

L’obiettivo di Biagio Antonacci?

«Mi piace molto lo spirito di Manu Chao, che ha molta libertà. E poi faccio il tifo nei confronti dei giovani».

Dovrebbe sempre essere così.

«Però quando sono arrivati quella della mia generazione come Ramazzotti o Carboni, tanti avevano paura che fregassimo loro il posto».

Oltretutto suo figlio Paolo è uno dei giovani autori più apprezzati.

«Vivo la quotidianità con lui, ovviamente ha ascoltato anche i miei nuovi brani».

A proposito di novità, si parla molto dei testi di rap e trap spesso ai confini del codice penale.

«Una volta forse non avrei considerato rap e trap, ma oggi lo faccio. Se oggi ci sono rapper e trapper vuol dire che devono esserci e capisco la loro comunicazione a volte cruda ed essenziale. Raccontano gli inconvenienti della loro vita. Loro possono dire tutto liberamente, io non appartengo alla loro cultura, ma è anche vero che la musica urban non può avere le stesse regole musicali e linguistiche del cantautorato».

Un bilancio?

«Di solito bisogna aspettare una ventina di anni per capire il vero valore delle canzoni».

I cantautori spesso avevano chiare simpatie politiche.

«Io un po’ invidiavo certi colleghi con tendenze politiche, ma ho sempre preferito essere soprattutto un cantautore che parla essenzialmente con la propria musica».

Ora si teme che anche l’intelligenza artificiale possa parlare con la propria musica.

«È una mina vagante e credo proprio che ci dovrebbe essere una tutela su questi problemi».

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