L’urlo del boss in cella: lo Stato mi aiuti a morire

L'urlo del boss in cella: lo Stato mi aiuti a morire

Quanto vale la vita di un detenuto in attesa di giudizio, così disperato da chiedere allo Stato di aiutarlo a togliersi la vita? Il Giornale ha intercettato la richiesta di suicidio assistito depositata all’Asl e all’Associazione Luca Coscioni da Nazareno Calajò, piccolo boss della mala milanese, malato e senza una gamba e sotto sorveglianza speciale a Opera. «Sono curato (male) al centro clinico e non posso suicidarmi perché guardato a vista. Chiedo il suicidio assistito», scrive nella lettera pubblicata sul quotidiano.

Siamo nel sottobosco dove si intrecciano con gli appetiti di mafia, camorra e ‘ndrangheta intorno a stadi e panozzi, parcheggi e curve, ultras e traffico di droga ma anche movida notturna a base di sesso, con la complicità della security dei locali dove i boss sono di casa. Un business che sforna cash, ripulito grazie ad alchimie contabili, in viaggio da Milano via criptovalute o sui furgoni in direzione Germania ed Est Europa. Un milieu costato caro a Paolo Salvaggio detto Dum Dum, freddato a Buccinasco a febbraio del 2022. O a Vittorio Boiocchi, capo ultras dell’Inter sorvegliato speciale, ammazzato da cinque colpi di pistola a fine ottobre 2022. Nel 2019 qualcuno ha provato a fare lo stesso con Enzo Anghinelli: un agguato in centro, una sparatoria degna di un saloon del Far West più che del Salone di Milano che sarebbe iniziato quel giorno. Senza colpevoli.

Calajò è in cella da un bel po’ per reati di droga ma secondo la Procura di Milano e l’Antimafia «non può non sapere» chi c’è dietro quelle vicende. Sono settimane che sul Fatto quotidiano trapelano rivelazioni, indiscrezioni e suggestioni sul suo possibile ruolo. Cene con gli ultras, frasi captate nell’ora d’aria contro pm milanesi «da far saltare in aria» o nemici di cui vendicarsi. Niente di penalmente dimostrabile, ma sufficiente a creare su Calajò un bersaglio sulla sua schiena. Basta un sospetto ad incendiare l’ambiente. Anche i figli sono dentro, da incensurati, per vicende bagatellari.

«La mia condizione ormai è divenuta penosa, irreversibile. La mia esistenza è ancora più insopportabile per la mia situazione giudiziaria», ci fa sapere Calajò tramite il suo legale Marco de Giorgio, che ha l’ingrato compito di fare da postino delle sue volontà, perché un detenuto in regime di alta vigilanza speciale non solo non può vivere con dignità il tempo che gli resta, ma non riesce nemmeno a togliersi la vita. «Questo Stato che mi tiene in prigione mi impedisce di sottrarmi alla tortura di vivere sulla sedia a rotelle, limitato nella mia autonomia perché ormai dimezzato nel corpo, ed annientato nello spirito». I suoi coindagati sono tutti fuori o ai domiciliari, lui e i figli no. «Sono stanco ed esasperato di apprendere dal Fatto quotidiano quali saranno le nuove imputazioni che mi verranno accollate (il 416bis, ndr) persino prima che siano rese pubbliche ed a conoscenza mia e dei miei legali», dice ancora Calajò tramite l’avvocato. Qui la questione si sposta su un fragile filo: giusto suffragare delle ipotesi della Procura senza considerare che così si mette a rischio l’incolumità di Calajò e dei suoi parenti? Ci sta che il boss milanese dica che quelle notizie sono «false e pilotate», è giusto che si chieda chi è «il corvo che la legge non persegue», ma qui la questione scivola sulle liasons dangerouses tra cronisti e Procure che tanto danno hanno fatto alla storia processuale di questo Paese, da Mani pulite (ma non solo) in avanti. E c’è il drammatico tema della condizione carceraria, con una percentuale di suicidi tra le sbarre spaventosa. Chissà che l’appello del piccolo boss milanese non convinca la politica a intervenire.

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