Il 21 gennaio di un secolo fa moriva Vladimir Ilic Ulianov, detto Lenin, principale artefice della vittoria del comunismo bolscevico in Russia. Fu idolatrato dai partiti comunisti di tutto il mondo come il fondatore di un mondo nuovo e di una nuova cultura socio-politica. Così lo valutò in Italia Antonio Gramsci: «Lenin si è rivelato il più grande statista dell’Europa contemporanea; l’uomo che sprigiona il prestigio, che infiamma e disciplina i popoli; l’uomo che riesce, nel suo vasto cervello, a dominare tutta le energie sociali del mondo»; e Togliatti si proclamò sempre leninista. In realtà Lenin fu il teorico e il costruttore di uno spietato totalitarismo e aprì la strada al dominio di Stalin.
In che cosa consisteva infatti il cosiddetto «leninismo»? Esso correggeva il marxismo in un punto fondamentale: mentre Marx aveva pensato che la classe operaia prodotta dal capitalismo fosse una classe rivoluzionaria, di cui il partito comunista doveva essere l’avanguardia, Lenin affermava invece (nel suo celebre opuscolo Che fare? del 1902) che «lo sviluppo spontaneo del movimento operaio fa sì che esso si subordini all’ideologia borghese». Protagonista della rivoluzione comunista non poteva quindi essere la classe operaia, poiché questa mirava soltanto a migliorare le proprie condizioni di vita all’interno della società capitalistica, bensì il partito comunista, concepito come una organizzazione di rivoluzionari professionali. Quanto al regime interno del partito, Lenin era un sostenitore intransigente del centralismo, poi definito dai comunisti come «democratico», ma che in realtà configurava un rapporto dirigenti-diretti di tipo militare. Questa era l’essenza del leninismo. Le più tarde elucubrazioni di Lenin sulla estinzione dello Stato nella società comunista, sulla distruzione della burocrazia, sull’autogoverno delle masse ecc. ecc. – esposte in Stato e rivoluzione, scritto nel 1917 – saranno puri esercizi retorici.
La concezione leninista del partito, con tutte le sue implicazioni (ad esempio che il movimento operaio è di fatto un movimento borghese se non viene subordinato al partito comunista, che il partito è la vera coscienza del proletariato, indipendentemente dalla coscienza effettiva, empirica, del proletariato medesimo) fu avvertita subito da parecchi eminenti marxisti come un avvenimento molto grave, foriero di terribili conseguenze. Così Rosa Luxemburg (che peraltro aderì alla rivoluzione bolscevica) osservò che Lenin aveva teorizzato un «centralismo spietato», fondato sulla intromissione diretta, decisiva e determinante delle istanze centrali in tutte le manifestazioni vitali delle organizzazioni locali del partito, le quali erano chiamate soltanto a una rigida disciplina. In questo modo, diceva la Luxemburg, Lenin aveva fatto propria una concezione di tipo blanquista, e la sua idea di disciplina assomigliava troppo a quella della caserma.
Ma anche eminenti esponenti della socialdemocrazia tedesca furono critici assai aspri di Lenin e del bolscevismo. Primo fra essi Karl Kautsky, che era considerato (dallo stesso Lenin) il massimo teorico marxista dopo Marx ed Engels. In Russia, diceva Kautsky, la dittatura del proletariato aveva assunto «una forma molto strana», in quanto era la dittatura di un partito (quello bolscevico) contro altri partiti di ispirazione socialista (i socialrivoluzionari, i menscevichi). Per mantenersi al potere, il partito bolscevico aveva soppresso la democrazia (aveva sciolto l’Assemblea costituente eletta a suffragio universale, poiché in essa i bolscevichi erano in minoranza), e aveva privato dei diritti politici tutti i suoi avversari, che non erano certo solo la corte, la nobiltà e la grande proprietà terriera, ma erano interi strati sociali proletari e piccolo-borghesi, nonché le loro organizzazioni politiche. In Russia la cosiddetta «dittatura del proletariato» era dunque il dispotismo spietato di un partito politico: in realtà del suo gruppo dirigente. E non solo: dopo la rivoluzione bolscevica la condizione della classe operaia era nettamente peggiorata, perché i bolscevichi avevano introdotto un capitalismo di Stato. Prima le rivendicazioni operaie avevano qualche possibilità di spuntarla presso il capitalismo privato; ora non più, perché, diceva Kautsky, «la burocrazia statale e quella del capitale formavano una cosa sola: questo era il risultato della grande trasformazione socialista apportata dal bolscevismo! Si trattava del dispotismo più oppressivo che la Russia avesse mai conosciuto».
La reazione di Lenin alle critiche di Kautsky fu violenta: La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, si intitolava un suo opuscolo. Ma quello che caratterizzava la concezione di Kautsky era la convinzione che non ci poteva essere socialismo senza democrazia politica, mentre per Lenin il socialismo era la dittatura implacabile di un partito: egli aveva aperto così la strada a Stalin (nonostante il suo patetico appello, nel suo testamento, alla rimozione di Stalin dalla carica di segretario generale del partito bolscevico, poiché questi era troppo «brutale» e «capriccioso»!). Cioè aveva aperto la strada a uno dei regimi più sanguinosi della storia moderna. La denuncia che Krusciov fece nel 1956, nel suo famoso rapporto segreto al XX congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica, degli efferati crimini di Stalin, pur impressionante, era solo una minima parte delle sofferenze sopportate dal popolo russo: taceva la distruzione fisica di intere classi sociali (i kulaki, cioè i contadini ricchi: ricchi perché possedevano un po’ di terra, due buoi e qualche maiale), e taceva l’enorme arcipelago gulag, cioè un numero assai elevato di campi di concentramento in cui languivano ai lavori forzati centinaia di migliaia di «sospetti».