Dodici anni da innocente, 89 giorni agli arresti domiciliari, mai interrogato per fatti insussistenti, tanto che la Procura è costretta a chiedere l’assoluzione e a non proporre appello alla sentenza assolutoria. Esiste peggiore spot allo stato comatoso della giustizia italiana? No. Lo pensa anche Alessandro Incecchi, ex dirigente Publitalia 80 e ormai ex fondatore della società Immediate Marketing & Pubblicità, una robina da qualche milione l’anno di fatturato, tritata assieme alla moglie Rosa Loredana Bruno, anche lei professionista di livello, e alla reputazione della coppia da un’inchiesta acrobatica che non avrebbe mai dovuto vedere la luce. Galeotta la gara europea bandita (e vinta) nel 2012 dal Ministero delle Politiche Agricole. Il pm romano Stefano Rocco Fava (oggi nei guai a Perugia per gli strascichi del caso di Luca Palamara) si convince che c’è una truffa ai danni dello Stato e chiede l’arresto dei due manager. Prima viene negato dal Gip, poi ricorre e riesce ad ottenerlo. Ma la commessa è stata effettivamente eseguita in modo corretto, come dimostrerà il processo in modo evidente, lo spot Il pesce italiano parla che prevedeva spazi su giornali e riviste, un sito istituzionale, una campagna nelle scuole. Niente da fare. Segue il solito supplizio: società interdetta e sostanzialmente fallita, dipendenti a casa, fornitori terrorizzati e clienti che si sciolgono al sole, conti e immobili sequestrati, vite passate al setaccio, domiciliari con controlli («anche notturni», ci dice Incecchi) dei carabinieri e un anno di obbligo di firma, neanche fossero Totò Riina e consorte, mamma ultranovantenne e figlia studentessa all’estero lasciate in balia del destino, automatico mascariamento sui giornali (vedi Repubblica, beneficiaria della stessa campagna pubblicitaria presuntamente «fantasma»). Incecchi e Bruno, entrando nel circuito dell’accertamento giudiziario, sono particolarmente sfortunati, sembra un dedalo. Di solito, in casi come il loro, può bastare un interrogatorio a chiarire i dubbi dei pm. Peccato che in tanti anni, come conferma al Giornale il legale Fabio Viglione, l’interrogatorio di garanzia dal Gip non ci fu perché la richiesta di misura cautelare non fu accolta ma venne poi disposta a seguito dell’appello del pm. E per una serie di alambicchi giuridici vennero negate le garanzie agli incolpati di fornire spiegazioni al giudice terzo. Al Tribunale del Riesame poi vennero depositati dei supporti informatici che non si aprirono alla lettura e forse sarebbero stati utili a dar conto della correttezza dei valori eseguiti. «Ma il nostro è un paese democratico? Civile? Come si fa a provare la propria innocenza tra interrogatori non fatti e poca voglia di conoscere la realtà degli interessati? Ci siamo imbattuti in un teorema e siamo stati addirittura arrestati!», si chiede Incecchi. «Con mia moglie siamo stati ascoltati da un giudice solo dopo più di dieci anni, e per la prima volta, a maggio del 2023». Pochi minuti, quando era già tutto chiaro perché i documenti e i testimoni ascoltati nel processo avevano evidenziato l’infondatezza dell’ipotesi di reato. Così al giudice ed allo stesso pm (che ha chiesto l’assoluzione) è parso tutto più chiaro: assoluzione perché il fatto non sussiste. La sentenza è passata in giudicato il 27 luglio scorso. «La sentenza ha dato atto della correttezza assoluta dei professionisti esemplari che hanno sofferto davvero tanto in questi lunghi anni, mi auguro che possano superare quest’incubo».