Doveva essere una decisione condivisa. Da prendere, aveva detto Giorgia Meloni, «tutti insieme». Magari dopo un confronto faccia a faccia tra i tre leader del centrodestra. Invece no. Prima sono arrivate le forti perplessità di Antonio Tajani, perché – aveva detto il leader di Forza Italia a La Stampa – «se la premier e i due vicepremier si candidano nello stesso momento» per le elezioni Europee «il rischio è che si perdano di vista le priorità del governo». E poi si è chiamato fuori Matteo Salvini. Che ieri sera, intervistato da Nicola Porro a Quarta Repubblica, ha detto chiaro e tondo che non correrà per le Europee e che resterà «a fare il ministro delle Infrastrutture» a tempo pieno.
Insomma, solo quattro giorni dopo l’accelerazione di Meloni – che in conferenza stampa aveva lasciato intendere di voler correre per le Europee, ma aveva rimandato la decisione finale a un consulto con gli alleati – Salvini gioca d’anticipo e si smarca. E lo fa senza che ci sia stato alcun vertice di maggioranza e lasciando chiaramente intendere che si tratta di una sua decisione e non certo di una strategia concordata o condivisa: «Non so cosa faranno gli altri, io parlo e penso per me. Chi sono io per dire a Giorgia o a Tajani cosa devono fare?». D’altra parte, è evidente che la questione è dirimente. Perché le elezioni per il Parlamento europeo del 6 e 9 giugno si giocano con le regole del proporzionale, quindi tutti contro tutti con buona pace della logica di coalizione. E perché saranno di fatto una sorta di voto di mid term, con cui si testerà con numeri reali non solo il gradimento del governo ma anche l’equilibrio all’interno della maggioranza. Con Meloni che ha evidentemente tutto l’interesse a correre in prima persona. Non solo perché i sondaggi dicono che la sua presenza come capolista in tutte e cinque le circoscrizioni equivale a un booster di 2-3 punti percentuali per Fdi, ma anche perché il partito di Meloni è oggi quotato intorno al 27%, con la Lega sotto il 10% e Forza Italia intorno all’8%. Per la premier, insomma, scendere in campo in prima persona potrebbe non solo portare Fdi a quota 30% ma anche rafforzare ulteriormente la sua leadership. Non a caso, nonostante i dubbi di Tajani e il «no» di Salvini, Meloni non pare intenzionata a cambiare idea.
Il 2024, insomma, è destinato ad essere un vero e proprio stress test per i partiti della maggioranza. Non solo per le Europee. Si voterà anche in cinque regioni – Abruzzo, Basilicata, Piemonte, Sardegna e Umbria – e in 3.700 comuni, di cui 27 capoluoghi di provincia e sei capoluoghi di regione. Il tutto, con tre sistemi di voto diversi: proporzionale per le Europee, maggioritario secco alle Regionali e doppio turno alle Comunali. E con un convitato di pietra: l’ipotesi di aprire al terzo mandato per i governatori, questione che è tanto strategica quanto spinosa negli equilibri della coalizione. Per due ragioni. La prima è che Fdi non è più il partito che alle Europee del 2019 prese il 6,4% e spinge per rimettere mano ai vecchi equilibri. La seconda è che la questione riguarda soprattutto il Veneto e l’eventuale riconferma di Luca Zaia. È vero che per Palazzo Balbi si voterà solo nel 2025, ma Fdi ha l’ambizione di esprimere il prossimo governatore di quella che è una delle regioni che trainano l’economia del Paese. E, dicono i maliziosi, a via della Scrofa pensano anche che un Zaia a piede libero possa essere un problema per Salvini. Il quale, ovviamente, a cedere una regione chiave come è il Veneto non ci pensa proprio.