Il tabù Corte dei conti. Vietato proporre riforme

"Bonaccini lumaca sul sisma. E a sinistra tutti zitti"

Si chiama Corte dei Conti l’ennesimo fortino intoccabile che la sinistra dice di voler difendere dalle riforme della maggioranza. È bastata l’anticipazione di Repubblica sulla proposta del capogruppo Fdi alla Camera Tommaso Foti per far scattare il riflesso pavloviano: «Non l’abbiamo ancora letta ma la contrasteremo in Parlamento, con tutti gli strumenti a disposizione», blatera il presidente dei senatori del Pd Francesco Boccia, coprendosi di ridicolo. Come si fa a contestare una proposta senza neanche leggerla?

L’allarme che risuona è il solito: «È sempre più evidente il fastidio della destra per l’equilibrio dei poteri, sancito dalla nostra Costituzione. Per noi la Corte dei conti era e deve restare autonoma». Peccato che quelle di Boccia siano le prime parole pronunciate dal Pd sul caso di Marcello Degni. Sono passati 9 giorni dal post del consigliere sulla «bava» da far venire a Giorgia Meloni con l’ostruzionismo Pd sulla legge di Bilancio ed ecco che Boccia ritrova la favella, farcita dai soliti distinguo: «Parole di Degni inaccettabili, ma non si può giustificare l’attacco all’intero corpo dei magistrati» e bla bla bla. Gli fa eco Angelo Bonelli dei Verdi: «La proposta Foti è una guerra dichiarata del partito di Giorgia Meloni alla magistratura a 360 gradi». Durissimi anche i grillini: «Altre leggi criminogene destinate ad incentivare il malaffare».

Peccato che la proposta Fdi sia stata depositata il 19 dicembre, 11 giorni prima dell’intemerata social di Degni. E cosa prevederebbe? Come principio il fatto che la Corte dei Conti sia «di supporto agli amministratori in via preventiva», non un bastone che li randella con un processo per «danno erariale», che nel 60% si risolve con un nulla di fatto. Secondo l’esponente Fdi quindi «qualora un atto abbia superato il controllo preventivo di legittimità, sia stato vistato e registrato, non sarà più possibile sottoporre a giudizio per responsabilità erariale gli amministratori che lo abbiano adottato, a esclusione della colpa grave», cosa che invece oggi è possibile in tutti i casi.«I controlli preventivi a carattere collaborativo sono il vero antidoto alla paura della firma, insieme alla chiarezza delle norme e al rafforzamento della pubblica amministrazione», dice a Repubblica il presidente dell’Anticorruzione Giuseppe Busia. E questo spiega il senso della riforma: il controllo preventivo della Corte dei Conti avrebbe un effetto «tombale» sulle eventuali criticità. Sullo sfondo c’è la gestione del Pnrr e, più in generale, il ruolo della magistratura contabile e la paura della firma. Oggi in Parlamento peraltro dovrebbe essere approvata l’abolizione dell’abuso d’ufficio, una riforma epocale contro un reato «evanescente» per usare le parole di Nordio. Se oggi il Pnrr è nel mirino delle mafie nonostante i controlli della Corte dei Conti, vuol dire che la via d’uscita è semplificare, come chiede anche Busia. La sparata social di Degni ha almeno il merito di riaccendere il dibattito sulla Corte, che nei mesi scorsi è stata parzialmente depotenziata pur di salvare quelle opere del Pnrr che non potranno essere realizzate entro il 2026 grazie a una sorta di scudo sulla «responsabilità per colpa grave commissiva» (che durerà fino al 30 giugno prossimo) con lo stop al cosiddetto «controllo concomitante», una misura benedetta persino da Sabino Cassese, non certo un pericoloso eversore. Secondo il presidente emerito della Consulta «ci deve essere una divisione dei ruoli tra la pubblica amministrazione e chi esercita il controllo». Farli a tappeto è «una forma di cogestione, di esercizio di un potere». Se la politica deve chiamare il controllore ogni volta che deve decidere, gli effetti negativi sono due, dice Cassese: «Si deresponsabilizza chi deve fare e chi deve controllare».

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