Ecco perché si riflette su questa parola simbolo

Ecco perché si riflette su questa parola simbolo

Da sabato 20 a domenica 28 gennaio torna a Pistoia «Le parole di Hurbinek», alla sua seconda edizione. La parola chiave del 2024, quella che idealmente la rassegna fa pronunciare a Hurbinek, bambino simbolo della Shoah, nato e morto a circa tre anni ad Auschwitz, che voce non ha mai avuto, è «Ghetto»: una parola tabù, che queste giornate intendono analizzare in tutte le pieghe.

L’origine veneziana della parola l’ha spiegata, qui a fianco, Alessandro Marzo Magno. Ma da quell’origine la parola ha fatto tantissima strada. C’è la memoria orrenda dei ghetti dati alle fiamme dai nazisti, la memoria della separazione ingiusta e del sopruso perpetrato a danno degli ebrei. E poi c’è il senso esteso, per cui ghetto è diventato qualsiasi quartiere degradato, qualsiasi luogo (o non luogo) in cui viene rinchiuso chi è da emarginare, per etnia, cultura, censo… Il mondo è pieno di ghetti, materiali e immateriali. Persino gli Usa che sono una delle culle della libertà planetaria a lungo hanno avuto negli Stati del Sud, anche dopo la guerra civile, quartieri ad evidente segregazione razziale. Per assurdo quando la segregazione razziale finì furono gli afroamericani più ricchi a trasferirsi più velocemente nei quartieri bianchi favorendo un ulteriore collasso socioeconomico dei ghetti. Paradossi tremendi che nei nostri nuovi ghetti culturali, dove ciò che conta è l’accesso all’informazione e alla tecnologia, potrebbero diventare ancora più tremendi. E così dal Ghetto di Venezia che era una fucina culturale, ai ghetti dell’esclusione socio economica e dell’ignoranza il cerchio rischia di chiudere. A meno che non si rifletta sul mondo e sulle parole e su ciò che le lega, che è la memoria (mai da esercitare in una giornata sola). E questa riflessione è proprio la radice di «Le Parole di Hurbinek».

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