Trent’anni fa l’America sembrava ancora un sogno, ma lo stipendio di un cittadino medio a stelle e strisce era appena il 9 per cento più alto di quello italiano. Adesso l’America è un impero in dismissione, ma il salario rispetto all’Italia è parecchio più ricco. È più del doppio: settantaseimila dollari medi l’anno per abitante contro trentaquattromila. E così sia. È il parametro economico che fa più impressione, ma in generale bisogna riconoscere che in generale l’Italia, negli anni ruggenti della globalizzazione, è molto meno competitiva. Non ha avuto più slancio, forza, fantasia, produttività e innovazione. Il passo anno dopo anno si è fatto più lento, tanto da perdere terreno rispetto ai paesi forti dell’Europa. Germania e Francia non hanno certo volato, ma noi siamo andati più piano. È il segno di una crisi di sistema, che coinvolge la società, le imprese e la politica. Qualcosa senza dubbio è andato storto.
Giorgia Meloni deve fare i conti con questa storia, perché il giudizio storico sul suo governo dipenderà anche dalla capacità di dare una scossa, di risvegliare un malato che da troppi anni passa da cure austere, dissanguanti, a speranze che puntualmente muoiono all’alba. Non c’è una ricetta scontata, i margini di manovra sono stretti, ma non sempre puoi sceglierti la stagione migliore per stare al potere. Ora tutti si sono svegliati e lamentano la stagnazione dei salari italiani e chiaramente puntano l’indice contro Meloni. È il ruolo dell’opposizione. Ci sta. Quello che in questi giorni viene però tralasciato è il fallimento culturale e politico di chi avrebbe dovuto battersi per i salari. Cosa hanno fatto, tanto per dire, i sindacati in questi trent’anni? Saranno andati a letto presto. Scioperi, scioperi, scioperi. Quasi uno ogni settimana, ma per cosa? Il sospetto è che i sindacati si siano da una parte trasformati in società di servizi e dall’altra seguendo il modello Landini (foto) si sentano più un partito, con un ruolo attivo soprattutto quando al governo manca il Pd. Non è accaduto spesso. Non si sta chiedendo qui a Cgil, Cisl e Uil di fare miracoli. È chiaro che il salario nominale viene castrato dalle tasse e quello reale dall’inflazione. È chiaro che il debito pubblico pachidermico è una spada di Damocle che rende inermi tutti gli attori in gioco. Quando però il salario diventa per i rappresentanti dei lavoratori una questione marginale, quasi un fastidio, qualche domanda su cosa si è sbagliato uno dovrebbe farsela. Non è solo sfortuna.
Non è solo un destino avverso. È che per 30 anni parlare di stipendi sembrava poco affascinante. Il sindacato sognava altro. Il sindacato voleva concertare e governare. Il sindacato faceva, fa, impresa. Il sindacato prima o poi avrà una poltrona in Confindustria.
Ti chiedi poi quali siano le preoccupazioni al centro della cultura di sinistra. La risposta immediata è «salario minimo». È una risposta minimalista. È una bandierina da mettere sul petto e l’impatto in realtà è marginale. È, purtroppo e soprattutto, una risposta ipocrita. Il salario non scalda i cuori della sinistra. Non si indignano per questo. Non scendono neppure in piazza. Non si sentono eroi. Il salario è prosaico. La commozione arriva quando c’è da sfidare il fantasma del fascismo eterno, per recitare la parte del partigiano Johnny. È finzione. È spettacolo. Il salario puzza troppo di realtà.