Quando i luoghi comuni diventano cinema e satira. Arriverà in Italia dal 20 gennaio American Fiction, debutto alla regia cinematografica di Cord Jefferson – lo sceneggiatore di serie come Succession – che vede protagonista Jeffrey Wright nei panni dello scrittore Thelonious «Monk» Ellison, afroamericano alle prese con gli stereotipi e i pregiudizi sulla letteratura nera in America. Il film è più divertente di questa premessa.
Premiato a Toronto lo scorso settembre, American Fiction ha ottenuto cinque candidature al Critics Choice Award, e quattro agli Spirit Awards, gli Oscar del cinema indipendente, in attesa delle nomination agli Academy Awards che quasi sicuramente tributeranno più di un riconoscimento a questa dramedy adattata dal romanzo Erasure di Percival Everett che racconta l’irritazione del protagonista a causa del fatto che la sua ultima opera non ha avuto successo, mentre entra nelle liste dei bestseller un tomo intitolato We’s Lives in Da Ghetto, titolo in slang sgrammaticato che più o meno significa le nostre vite nel ghetto e che racconta di emarginazione e di madri adolescenti. Lo stereotipo, appunto.
Cord Jefferson racconta un simile episodio, vero, accaduto a una sua collega sceneggiatrice: «Ad un incontro con alcuni produttori di Hollywood le fu chiesto che cosa le interessasse fare, e rispose una commedia romantica o un thriller erotico. Le promisero che si sarebbero fatti sentire e così avvenne, ma le proposero la più classica delle trame che ci si aspetta da uno scrittore afro-americano: la storia di uno schiavo nero e cieco che diventa un pianista di fama internazionale. Purtroppo questa è la normalità a Hollywood, gli stereotipi imperano e oggi ancora di più. Il libro da cui il film è tratto fu scritto nel 2001, ma potrebbe essere stato pubblicato ieri».
Jefferson racconta la sua stessa personale esperienza: «Nasco giornalista e anche un quel campo mi veniva chiesto di raccontare le solite storie: il ragazzino nero ucciso dalla polizia, l’emarginazione, la miseria. Ma il vissuto dei neri non è soltanto questo, ci sono altre storie, magari di successo, che però non trovano mai spazio. Quando ho deciso di provare a intraprendere la carriera di autore televisivo e cinematografico i luoghi comuni su che cosa dovrebbe raccontare un nero erano rimasti quelli. Così, quando mi hanno proposto un film di satira su questi stereotipi sapevo che dovevo provare».
Il cast è notevole: Tracee Ellis Ross, Adam Brody, Sterling K. Brown, Issa Rae e Leslie Uggams affiancano il protagonista Jeffrey Wright che racconta di aver deciso di fare il film dopo aver letto una scena nel copione: «Monk è anche insegnante e c’è una scena in cui è in classe che rappresenta chiaramente questa ipersensibilità alla questione razziale che si è sviluppata negli ultimi anni e che sta rasentando il fondamentalismo. Il film analizza questi temi in maniera satirica e umoristica. Mia figlia ha notato che c’è molto del mio umorismo nel film, ma non l’ho portato io, era nel copione ed è per questo che ho capito subito che era un film che dovevo assolutamente fare».
American fiction è però anche una storia d’amore: «Amore per sé stessi, per gli altri e per la famiglia – continua Wright -, amore fraterno e amore filiale. Mia mamma è mancata un anno prima che io leggessi questo copione e quando l’ho letto mi ha emozionato. Ho trovato molte similitudini fra la storia di quest’uomo che si prende cura della madre malata di Alzheimer e la mia vita, gli ultimi momenti passati con mia madre a occuparmi di lei. È una storia universale, che molti di noi conoscono e molti altri conosceranno».
American Fiction è anche la storia di un incontro sentimentale tardivo. «E questo è un altro aspetto della vita che raccontiamo e che è universale, che molti conoscono e molti conosceranno. Le relazioni sentimentali dopo la giovinezza sono più faticose. Anche in questo caso i pregiudizi costruiti dall’esperienza hanno un peso e occorre un impegno notevole per eliminare gli strati di corazza che ognuno di noi si costruisce addosso negli anni». Ma ogni storia è diversa e semplificare è sbagliato. Questo è il punto che il film vuole sottolineare attraverso l’ironia: «Gli stereotipi esistono – dice il regista – e occorre poco per riconoscerli. Più che un racconto sui pregiudizi nei confronti della comunità nera, il nostro è un film sulla stupidità dei pregiudizi stessi ed è per questo che qualsiasi pubblico si riconoscerà nel nostro racconto».