Passione inesauribile. Competenza tecnica. Conoscenza storica. Sono queste le prime riflessioni che, a una decina d’anni dalla sua prima uscita, sorgono spontanee di fronte alla seconda edizione del monumentale 1000 dischi per un secolo (Il Saggiatore, pagg. 1788, euro 59) del compositore e chitarrista Enrico Merlin. Non si perde in giri di parole Enrico Merlin, universalmente noto come uno dei maggiori esperti dell’opera di Miles Davis. Nella corposa introduzione, racconta al lettore la genesi del libro e, soprattutto, indica le ragioni di certe scelte, a partire dalla decisione di inserire in ogni anno del secolo questa o quella registrazione. Ovviamente, le più vecchie sono incisioni primitive. D’altro canto, l’amato Lp nasce nel 1945 e, con esso, entra in gioco un’idea a suo modo diversa e rivoluzionaria di fare musica che, a partire dalla metà degli anni Sessanta, codificherà il concept album come una vera e propria forma d’arte a se stante.
Merlin, però, non si unisce al coro lamentoso dei nostalgici di quella stagione aurea e, così come si districa senza difficoltà nel passaggio dalle incisioni primordiali al vinile e nella transitoria fase di scomparsa di quest’ultimo in favore dell’asettico Cd, accetta anche la dolorosa smaterializzazione delle registrazioni musicali. Quasi quasi le preferisce, «forse perché alla fine amo più la musica di quanto ami i dischi, comunque, mi piace pensare che il processo di smaterializzazione del supporto coincida con la riappropriazione da parte dell’entità musicale della sua essenza. In fondo, come diceva Frank Zappa, la musica è una scultura d’aria». La dissoluzione del supporto, è la seducente tesi di Merlin, riconduce «all’essenza più pura della musica, alla sua condizione di inafferrabilità».
Passione e creatività: Merlin indica nella capacità di innovare e di staccarsi dai cliché uno dei tratti essenziali del grande musicista. Per questo, sottolinea fin dal principio che diversi nomi faranno spesso capolino tra le pagine del suo libro per l’indiscusso ruolo primario che rivestono. Qualche esempio? Duke Ellington, Beatles, Bob Dylan, Gustav Mahler, Rolling Stones, Robert Fripp dei King Crimson, Charlie Parker, Frank Sinatra, John Coltrane. Oltre, naturalmente, alla sua sacra triade: Igor Stravinskij, Miles Davis e Jimi Hendrix.
Tra i dischi consigliati dall’autore non potevano mancare titoli imperituri come Paranoid dei Black Sabbath, Electric Ladyland di Jimi Hendrix, Revolver dei Beatles, Live at the Apollo di James Brown, Blonde on blonde di Bob Dylan, Sketches of Spain di Miles Davis, The piper at the gates of dawn dei Pink Floyd e London calling dei Clash, per citarne alcuni.
La quasi totale assenza di opere italiane la dice lunga sulla portata internazionale della nostra musica, ma non scordiamoci che di prodotti non statunitensi o britannici ce ne sono pochissimi. Insomma, non è un elemento di distinzione di cui andare fieri, ma in questo non siamo soli.