Nel novero delle notizie «stagionali» del periodo natalizio, oltre al costo dei cenoni e alle stime di spesa durante i saldi appena iniziati, c’è anche lo studio «scientifico» dei ponti previsti dal calendario 2024. Ieri l’edizione online del Corriere ha spiegato che prendendo 10 giorni di ferie si possono trascorrere 34 giorni di vacanza, sfruttando al massimo il periodo 25 aprile – 1 maggio e l’intervallo tra Natale e Capodanno.
Come detto, è una notizia «innocua» ma porta con sé un non detto poco tranquillizzante: l’organizzazione delle vacanze, infatti, precede quella del lavoro. E molto probabilmente il 2024 sarà un anno nel quale agli italiani dovrebbe essere richiesto un surplus di responsabilità. Non tanto perché essi possano essere definiti «fannulloni» (le ore lavorate per occupato nel 2022 in Italia sono state 1.694 contro le 1.341 della Germania e le 1.515 della Francia) ma perché la produttività del lavoro nel periodo 2014-2022 è cresciuta solo dello 0,5% medio annuo a fronte dell’1,3% dei Paesi dell’Unione europea.
Spiegato in modo ancor più semplice, è grazie all’impegno degli italiani al lavoro se la crescita economica non si è spiaggiata definitivamente e si è ottenuto un recupero straordinario nel periodo post-pandemico con un +7% di Pil nel 2021 e del 3,7% l’anno successivo. Ma dinanzi a un 2024 nel quale il prodotto interno lordo potrebbe fermarsi al +0,7% l’impegno individuale è ancor più necessario.
Ecco perché sarebbe molto importante un cambio di mentalità generalizzato, più orientato alla produzione e meno al sacrosanto riposo. E si tratta di un discorso che riguarda tutti, nessuno escluso. Nella conferenza stampa di giovedì scorso al premier Meloni sono state rivolte domande sulla conferma del taglio del cuneo e dell’Irpef (fondamentali per il recupero di potere d’acquisto dei redditi medio-bassi), sulla riforma delle pensioni e sulle concessioni balneari. Nessuna domanda sulla produttività e sulle modalità per aumentarla.
Ovviamente, nessun governante dispone della bacchetta magica, ma affrontare il problema è il primo passo per risolverlo. Affrontarlo significa guardare, in primo luogo, alla natura stessa del Pil italiano nel quale l’industria pesa solo per il 20% a fronte del 27% della Francia e del 23,5% della Germania. All’interno di questo comparto le microimprese (meno di 10 addetti) sono il 95% del totale. In questo caso piccolo non sempre è bello perché significa meno investimenti e meno ricerca.
Crescere significa non solo aumentare il valore aggiunto e il Pil, ma far aumentare ex post anche le retribuzioni. Perché, occorre ricordarlo, l’aumento dei salari fa calare la produttività in quanto fa crescere il denominatore del rapporto tra valore aggiunto e costi della produzione. La questione retributiva non può prescindere da questi dati.
«Il duro lavoro è essenziale per il successo», ha scritto Niraj Shah, fondatore del colosso Usa Wayfair che vende mobili online. Perché senza lavoro non c’è sviluppo e senza sviluppo c’è il rischio che il lavoro si svilisca, creando una barriera tra grandi gruppi (anche italiani) in grado di remunerare bene e concedere la settimana corta e il resto del mondo. Dunque, guardare il calendario è ok, rimboccarsi le maniche ancora meglio.