La divisione tra passato e presente e futuro ha solo il valore di un’ostinata illusione: lo disse Einstein ma lo dimostra il professor Giuliano Amato – Torino 1938, vivente che in ogni riapparizione ha il potere di finire nelle cronache politiche e nel contempo di risuonare come una dichiarazione di Mariano Rumor (Dc) sul terremoto del Belice. L’onnipresenza di Amato non è legata al fatto che è stato tutto: docente, parlamentare, sottosegretario, ministro, vicesegretario, vicepresidente e presidente del Consiglio, Presidente dell’Antitrust, della Treccani, di fondazioni varie, pensionato di platino, giudice e presidente della Corte costituzionale, e buon ultimo capo del Comitato algoritmi: stavamo ancora imparando che cosa fosse l’Intelligenza artificiale e lui ne era già stipendiato.
L’onnipresenza di Amato, dicevamo, è legata ad altro. principalmente a un numero candidature e auto-candidature che ha sempre superato almeno di cinquanta volte quelle reali. Il dottor Sottile (copyright Scalfari) è il parmigiano istituzionale che sta bene su tutto e figuriamoci se da sinistra, ora, non si presti perfettamente per contrapporlo a Giorgia Meloni e al suo Governo: anche perché la biografia minima di Amato non può trascurare il suo profilo tartufesco, la sua impopolarità da professorino la cui parola vale poco o nulla (frase non smentibile) e da personaggio che ha preso l’autobus forse una sola volta nel 1956, da burocrate calato dall’alto che piace alla gente che dispiace, quindi ai cerchiobottisti, ai presentatori di libri, ai patiti del potere per il potere; l’archetipo, per farla breve, di quanto sia più estraneo possibile a quel processo di identificazione minima (minima) che dovrebbe riguardare il rapporto tra cittadini e istituzioni. E non serve Einstein, insomma, per capire perché per imbastire una polemica anti-governativa, da sinistra, non possa esistere un candidato migliore.
L’erede del neo-biagismo televisivo, Lilli Dietlinde Gruber, riuscì a definire Giuliano amato persino «rottamatore ante litteram»: questo solo perché nel 2008 non si era ricandidato al Parlamento. L’effetto fu da droga pesante, considerando che si parla dell’uomo che abbandonò «ufficialmente» la politica nel 1992, 1993, 1994, 2007 e appunto 2008: salvo figurare, almeno sino a ieri, nel 2024, capo di un organismo nominato dal Governo Meloni. Come non ammirarlo? E come non considerarlo, stavolta davvero ante litteram, come quei personaggi dello spettacolo che sono famosi per essere famosi (copyright D’Agostino) nonché un politico che è autorevole per esserlo sempre stato? Ammuffito e modernissimo, non l’avete mai visto azzuffarsi in un talk show: i suoi sforzi si sono sempre prodigati in segrete e ovattate stanze, e la sua capacità di mediazione, negli anni, anzi nei decenni, l’ha trasformato in una sorta di Gianni Letta esclusivamente pro domo sua. Non è mai stato chiaro di quale autorevolezza fosse effettivamente dotato, ma nei fatti la «quota Amato» è sempre stata una sorta di dogma, buono per ripescarlo ogni volta che non si sapesse che pesci pigliare, un dispensatore di opinioni non sempre memorabili e un organizzatore di convegni con protagonista lui medesimo, un elaboratore politico che, al massimo, partorì il programma elettorale del dimenticato «Triciclo», summa elettorale di Ds e Margherita e Sdi.
Qui servirebbe un po’ di memoria, ciò che manca a questo Paese. Tralasciamo l’ingratitudine di Amato per quel Craxi che pure lo impose in tutti in ruoli possibili, e così pure, per non vincere facile, il suo prelievo forzoso del 6 per mille dai conti bancari degli italiani (1992) e la successiva battaglia perduta contro una sonora svalutazione della lira, ciò che dapprima provò a negare. È più attuale ricordare l’Amato ministro dell’Interno del governo Prodi quando azzardò un piano per la sicurezza per «Evitare una svolta fascista» (prima pagina del Corriere della Sera, 6 settembre 2007) perché è così, gallinaccio vecchio fa buon brodo, e la divisione tra passato e presente e futuro ha solo il valore di un’ostinata illusione.