Sono passati tanti anni, ma il 7 ottobre 2009 è una data spartiacque nei rapporti tra la magistratura e la politica. Lei, dottor Luca Palamara, in quel momento era a capo dell’Associazione nazionale magistrati e fu uno dei protagonisti di quella vicenda, la bocciatura del cosiddetto Lodo Alfano, una legge che voleva dare l’immunità alle quattro più alte cariche dello Stato, tra le quali il presidente del Consiglio.
«In quel momento Silvio Berlusconi, reduce dal trionfo elettorale dell’anno precedente, era braccato dalla magistratura. Una volta tornato a Palazzo Chigi nell’aprile del 2008, per prima cosa prova a blindarsi. Il 26 giugno il governo vara il Lodo Alfano dal nome del ministro della Giustizia proponente che a tempo di record diventa legge: la Camera lo approva il 10 luglio, il Senato il 22 e il giorno dopo il presidente Napolitano, suo malgrado, controfirma».
Per Berlusconi è fatta. Cosa avete pensato in quel momento?
«Che lui certamente aveva i numeri parlamentari per fare ciò che voleva, ma non aveva il controllo del Sistema. E il Sistema è più forte del Parlamento. E la lobby dei magistrati si mette in moto. Il 26 settembre Fabio De Pasquale, in quel momento pubblica accusa in due processi che riguardano Berlusconi, solleva un dubbio di costituzionalità sul Lodo Alfano. Dubbio accolto dai giudici, che chiedono lumi alla Corte Costituzionale. È il varco in cui ci infiliamo tutti. Però, prima di raccontare cosa avvenne dietro le quinte, è meglio che chi ci legge abbia chiaro quali sono i meccanismi che sovraintendono alla Corte Costituzionale».
Prego.
«La Corte Costituzionale è composta da quindici membri che restano in carica nove anni. Cinque di loro sono di nomina del presidente della Repubblica, cinque sono eletti dal Parlamento, cioè dalla politica, e cinque eletti dalla magistratura nelle sue varie articolazioni».
Perché ci ricorda tutto ciò?
«Tutti i presidenti della Repubblica che si sono succeduti dal 1999 venivano da partiti di sinistra o culture di sinistra. Il che significa che i cinque membri in carica di nomina quirinalizia non potevano che riflettere quell’indirizzo. Difficile poi pensare che i cinque membri nominati dalla magistratura fossero tutti, diciamo così per semplificare, di destra o addirittura filoberlusconiani. Dei restanti cinque, di nomina parlamentare, almeno un paio sono eletti dalla sinistra. Risultato: oltre i due terzi dei giudici costituzionali hanno un orientamento a sinistra».
Però sempre giudici sono.
«Certo, ci mancherebbe. Sto solo dicendo che, numeri alla mano, all’interno della Corte costituzionale l’orientamento della magistratura, su ogni tema, prevale su quello della politica, soprattutto sulla politica di centrodestra. Ma lo sbilanciamento a sinistra è dovuto anche a un altro fatto ai più sconosciuto».
Rendiamolo noto.
«Lei conosce quel detto: I ministri passano, i dirigenti restano, che sta a indicare come in un ministero chi comanda davvero sono i capi di gabinetto guarda caso quasi tutti magistrati distaccati e gli alti funzionari, in altre parole la burocrazia? Ecco, alla Corte costituzionale i giudici sono come i ministri, interessati soprattutto a mantenere la poltrona adeguandosi all’orientamento prevalente. A mandare avanti la macchina ci pensano gli equivalenti dei dirigenti al ministero, cioè gli assistenti di studio».
E questi da dove sbucano?
«Ogni giudice ne può avere fino a tre. La maggior parte, oltre i due terzi, arriva dalla magistratura ordinaria, quindi anche loro occupano quel posto solo dopo aver superato l’esame delle correnti. Il meccanismo è lo stesso usato per lottizzare qualsiasi altro incarico direttivo, tipo procuratore della Repubblica o presidente di tribunale».
E perché questi assistenti sarebbero così importanti?
«Perché sono loro a studiare le carte e preparare le sentenze da sottoporre al loro giudice di riferimento. Il quale il più delle volte prende atto e firma. L’ex ministro della Giustizia, Marta Cartabia, nasce così, assistente di studio di Antonio Baldassarre, che nei primi anni Novanta fu anche presidente della Corte. Poi il presidente Napolitano la nomina giudice. Da giudice è collega di Sergio Mattarella, che diventato presidente della Repubblica vede di buon occhio la sua nomina prima, nel 2019, a presidente della Corte stessa, poi a ministro della Giustizia nell’esecutivo di Mario Draghi».
Torniamo a quel 2009 e alla necessità di non concedere l’immunità a Silvio Berlusconi.
«La Corte Costituzionale è sì un organismo terzo, ma non troppo terzo rispetto al potere esercitato dalla magistratura al di fuori delle aule di giustizia. Tanto è vero che io in quei mesi, da presidente dell’Anm, frequento spesso, non solo in occasioni formali, il Palazzo della Consulta, sede della Corte che sta proprio di fronte al Quirinale allora abitato da Giorgio Napolitano, con il quale sono in costante contatto».
In che senso «non solo in occasioni formali»?
«La posizione della magistratura associata era chiara e io stesso mi ero confrontato con il presidente Napolitano: per noi il Lodo Alfano doveva essere abolito e Berlusconi processato. Ovvio che per trovare il modo di arrivare all’obiettivo tenevo rapporti stretti con i miei referenti alla Corte, quei magistrati distaccati che ben conoscevo e di cui parlavo prima. Sono state tante le colazioni dentro quel palazzo così algido. Una sorta di reggia esclusiva».
Un lavoro di lobby per affossare una legge approvata dal Parlamento. Non è il massimo della trasparenza.
«Era quello che aveva deciso il Sistema in quel momento. Non dimentichiamoci che Berlusconi e il suo governo erano i nemici del Sistema, non si poteva in alcun modo permettere che si rafforzassero con l’immunità. Quindi ognuno doveva fare il suo: i procuratori che stavano indagando su Berlusconi avanzare eccezione di costituzionalità, il Csm proteggere loro le spalle, l’Anm suonare la grancassa del rischio colpo di Stato e affini, i partiti di sinistra e i sindacati mobilitare le piazze, i giornali di area dare grande rilevanza a tutto questo. Da ultimo, non in ordine di importanza, il presidente della Repubblica a cui era toccato, per dovere d’ufficio, controfirmare quella legge. Insomma, bisognava preparare il terreno perché la Corte costituzionale alla fine facesse il suo, sentendosi ben supportata».
Una partita impari.
«Berlusconi mette in campo un parere favorevole al Lodo Alfano dell’Avvocatura di Stato, ufficio che dipende dalla presidenza del Consiglio, quindi da lui. E avvicina gli unici due giudici della Corte di nomina del centrodestra, Luigi Mazzella, già suo ministro in un precedente governo, e Paolo Maria Napolitano. La cena avviene a casa Mazzella nel giugno di quel 2009, vi partecipano anche Gianni Letta e Carlo Vizzini, oltre che lo stesso Alfano. L’incontro non costituisce reato i giudici costituzionali non sono soggetti alle stesse restrizioni di quelli ordinari ma la notizia della cena, guarda caso, viene fuori, e gettata in pasto all’opinione pubblica diventa un boomerang per il Cavaliere».
Finale scontato.
«Il 7 ottobre 2009 la Corte, con nove voti contro sei, dichiara l’incostituzionalità del Lodo Alfano, con la motivazione che non basta una legge ordinaria ma ne serve una costituzionale».
Poteva andare diversamente?
«In punta di diritto sì. Quella sentenza smentisce la sentenza con cui la stessa Corte, due anni prima, aveva bocciato il Lodo Schifani, antesignano di quello Alfano. Allora i giudici avevano contestato il merito, non la legittimità di una legge ordinaria. Ed entrerà in conflitto pure con la sentenza del 2013 con cui la Corte ordinerà la distruzione immediata dei nastri con le registrazioni delle telefonate tra il presidente Napolitano e Nicola Mancino relative all’inchiesta sulla presunta trattativa Stato-mafia, riconoscendo al capo dello Stato un diritto alla riservatezza non previsto per qualunque altro cittadino. Ma questi sono tecnicismi che poco importano. Il dato politico è che la magistratura nel 2009 ha vinto, che Silvio Berlusconi poteva rimanere, come è stato, sotto inchiesta e sotto processo, e questo è dovuto al fatto che la Corte costituzionale ha fatto Sistema».