Al primo dei due Don Revie, un monumento del calcio inglese, aveva consegnato il voluminoso mazzo di chiavi del centrocampo della nazionale quando aveva soltanto vent’anni. In quel ragazzino che assomigliava ad un fuscello ci vedeva qualcosa di esaltante. Il fatto era che se consegnavi il pallone a Ray Wilkins per uscire da un pressing, lui dapprima te lo conservava in ghiaccio, quindi alzava la testa e liberava fendenti millimetrici. Per la precisione dei suoi lanci i connazionali l’avevano ribattezzato “Razor”, rasoio. Era pacato e socievole, Wilkins. Nel tempo libero divorava libri di filosofia e adorava cimentarsi con le lingue stranierie. Era esploso nel Chelsea e poi si era confermato nel Man Utd, di cui era diventato capitano. Presto avrebbe imparato anche l’italiano.
L’altro era la sua nemesi. A scuola le maestre l’avevano definito “soggetto irrecuperabile“. Mark Hateley da Derby si era rivelato ruvido fin dai primi vagiti. Con lo studio era un’autentica frana, ma se la cavava benissimo in tutte le discipline sportive. Nuoto, rugby, calcio. Aveva scelto quest’ultimo dopo una serie di fratture rimediate con la palla ovale stretta sotto braccio. Non che gli altri ne uscissero meno tumefatti: Mark era gigantesco. Spalle larghe, leve come eliche, spigoli disseminati ovunque. Andarci a sbattere contro lasciava in dote cumuli di lividi. Era il tipico ariete inglese, Hateley: sfrontato, smargiasso, ribaldo. Fuori dal campo però quell’esuberanza svaniva. Era tutto fuorché loquace, non affrontava temi di geopolitica internazionale, si rifiutava categoricamente di imparare le lingue straniere.
Nell’estate del 1984 Giussi Farina ha riportato in panca Nils Liedholm, reduce dai successi raccolti a Roma. In attacco arriva Virdis, in mezzo Di Bartolomei. Ma non basta per il restyling. Trilla una linea telefonica nei dintorni di Old Trafford. “Ray, ti vogliono in Italia. Ti vuole il Milan”. E Wilkins, che aveva perso gradualmente posizioni in squadra, accetta non senza una stilla di stupore. Anche davanti urge fare di più. Altra cornetta in ebollizione, stavolta dalle parti di Portsmouth. Arriva anche Mark Hateley. Due british boys a San Siro.
L’attesa dei tifosi è debordante. Qualche connoisseur indica nella venuta dei due anglosassoni un diluvio di manna celeste. Il problema è che in Italia siamo sessanta milioni di presunti intenditori. E poi le aspettative troppo sbracate procurano slogature emotive. Per carità: entrambi diventano presto idoli per la tenacia con cui presidiano le loro zolle di campo. Ma l’impatto sul campionato italiano è rivedibile.
Meglio Wilkins, a conti fatti, perché con le sue geometrie cuce il gioco e luccica specialmente nel primo anno, per poi sciogliersi gradualmente nel secondo e scivolare in panca nell’ultima e terza stagione. Ray impara presto la lingua, si intrattiene con i compagni anche dopo gli allenamenti, cementa il gruppo. Si conferma il metronomo che tutti attendevano soltanto per un pezzo, ma in fondo la sua parabola intenerisce e l’osmosi con l’ambiente rossonero lo premia con uno scranno scintillante nel cuore dei tifosi.
Hateley fatica molto di più. Rifiuta di imparare l’italiano e il corto circuito comunicativo si riflette in campo. In area è selvaggio e sgraziato, ma intimorisce comunque le difese altrui, sovrastandole specialmente nel gioco aereo. Per questo la gente prende a chiamarlo “Attila”. Malgrado questo, segna soltanto 7 gol il primo anno e 8 il secondo. Sembra avere un sussulto nel terzo, ma è già troppo tardi anche per lui. Anche se i tifosi lo apprezzano per il modo tribale con cui si infila in ogni tenzone, deve fare le valigie come Wilkins.
Una nuova era sta sorgendo. Quella degli olandesi. Però questi due ragazzi inglesi resteranno per sempre incisi in ogni anima milanista.