Le illuminazioni “divine” di Scipione l’arcano

Le illuminazioni "divine" di Scipione l'arcano

Si sentiva l’erede di El Greco. Amava quelle figure che paiono ritagliate e incollate su tela, parti di un parto abnorme, di un presepio allucinato; i cieli strappati e i corpi liquidi, ovuli di Dio. «Le sue figure sono fantasmi che si concretano con una realtà tattile terribile», scrive in un pensiero Sulla pittura del Greco. Della «strage positiva e materialista e razionale», a suo dire, El Greco è l’antidoto, la via di fuga «per ritrovare una spiritualità forte, vera, in senso assoluto di ogni tempo».

Nato a Macerata il 25 febbraio del 1904, Gino Bonichi scelse un nome tonante, Scipione – proveniva da una famiglia di marescialli dei carabinieri – per diventare il capostipite della cosiddetta «Scuola Romana». Visse nel quartiere Prati, poi a Collepardo, in Ciociaria; nel 1930 partecipò alla XIII Biennale di Venezia. Le sue tele – il Ritratto del Cardinale Decano, ad esempio, La piovra, Il risveglio della bionda sirena – si imposero per barbarica potenza. Secondo le parole di Emilio Cecchi, «il suo metodo era di sfrenarsi»; l’opera pittorica di Scipione «è un massacro, pieno di spenti sussulti, sguardi morituri». Fece il ritratto a Giuseppe Ungaretti – attualmente alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma -: il poeta che più di tutti amava ha la faccia taurina, tremenda, lo sguardo del centauro.

Eccentrico, carnale, lettore estremista – teneva sempre con sé una copia dell’Apocalisse, tra i contemporanei preferiva Montherlant, altrimenti recitava Rimbaud e Lautréamont – Scipione da ragazzo primeggiava nelle gare di atletica. Si scoprì tubercolotico, costretto a una gimkana tra diversi sanatori, fino alla morte, precoce, nel novembre del 1933, a neanche trent’anni. Il diario tenuto da Scipione durante la malattia sorprende per le ustioni costanti, la cristallina preparazione alla morte («Bisogna entrare in un voto, indossare un voto… Accettare un voto è fare entrare Dio nel nostro corpo. Chi oserà scendere in battaglia con lui?… Quando si scioglierà il voto si scioglierà la mia commozione»).

Il dolore, in Scipione, è la sacrestia in cui accade l’incontro con il Dio benevolo e iracondo: di rado – in Clemente Rebora soltanto, forse – si sono lette pagine così conturbanti sull’ingresso in una conversione. «Sei stato colpito nell’elemento, dove hanno sede le forze più oscure, dove principia per la creatura umana la notte. Ora si tratta di radunare le forze luminose perché la ferita si rimargini».

Dopo la morte, è Enrico Falqui – curatore, carismatico, dell’opera di Dino Campana e di Curzio Malaparte – a raccogliere gli spersi quaderni di Scipione in un libro memorabile, Carte segrete, edito prima dalle edizioni di Corrente, nel 1939, poi, nel 1943, in edizione definitiva, per Vallecchi. «A tal punto le sue parole echeggiano dentro di noi, che deciderci a darle oggi alle stampe è un po’ come liberarcene nella commozione di tutti. E ce ne resta inibito ogni commento», scrive Falqui nella partecipe Premessa. Nel libro, spiccano dieci poesie con cui, letteralmente, Scipione muta i canoni della lirica italiana del Novecento. Sono poesie, si direbbe, scritte nel primo giorno del mondo, di innocente ferocia, con il bianco sudario intorno. Appaiono stelle che «cadono accese/ per bruciare il mondo», rospi che «si strofinano contro la corteccia dei grossi tronchi», gli «strilli degli angioli», le civette che «gridano» e un dio-uomo che «mise le mani per terra ed era simile/ a una bestia». C’è una folgore che «scrive nel cielo/ i caratteri di Dio» e qualcuno che «spezza il corpo nell’adorazione». Carlo Betocchi – era il 1938 – restò spaurito da questi versi, giunti dal nessundove, da una zona franca e selvaggia della nostra lirica: «Scipione mi serra addosso ed io non posso scuotere la sua presenza». Molti anni dopo, è Amelia Rosselli a esultare per quelle «dieci splendide, anzi esemplari poesie», introducendo l’edizione Einaudi di Carte segrete (1982).

Poi, per decenni, più nulla. La poesia eucaristica di Scipione – da belva mitologica nel fonte battesimale – è rimasta culto per pochi lirici templari (ne hanno tenuta viva memoria Gian Ruggero Manzoni e l’editore Raffaelli, che ha stampato una rapace edizione delle liriche come Le stelle cadono accese, 2017). Probabilmente, intimorisce la parola dallo scabroso candore, l’esperienza di un uomo che nel cupo male traccia la sua via verso l’invisibile: «Voglio dormire puro come il pane. Voglio gettarmi sulla terra senza contaminarla. Fa’ che io possa avvicinarmi a te. Dammi la forza per vincere».

Ora, a novant’anni dalla morte di Scipione, Carte segrete ritorna per Red Star Press (pagg. 132, euro 15, a cura di Marco Bisanti): va letto da ignari, voltando le spalle al tempo, come se tra sanatorio e santuario non vi fosse differenza. Che un libro del genere, tra i più spiazzanti del Novecento italiano, sia un non-libro, bensì una raccolta di fogli scritti per sé e non per il pubblico pasto – «Carte segrete non sono né un libro né il libro di Scipione», ha scritto Paolo Fossati – è un segno prima che un monito. L’avvenenza della poesia italiana avviene nella latitanza, al di là di algoritmiche antologie; oggi, per scoprire la poesia, occorre scostare i veli, uscire dalle stanze istituite per conservare l’idolo lirico, andare negli spazi aperti e sollevare il fiume come un figlio.

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