70 anni di Rai. Crescere all’ombra del ripetitore tv

La fake news sui tg Rai rovinati dal centrodestra

Corso Sempione, Milano. Via Montebello, Torino. La televisione. Città diverse, accoglienze opposte ma terre d’approdo unite dalla nuova avventura, misteriosa ed affascinante per i pionieri dell’Eiar, nella sede di Bari, via 5 Putignani, primo sito dopo la liberazione.

Gennaio, domenica tre, giorno di festa e inizio della rivoluzione, fino ad allora c’erano soltanto voci e immaginazione, la radio era fantasia, musica, parole e bollettini di guerra, ballate con noi, rosso e nero. Linoleum verdastro lungo i corridoi del civico 27 di corso Sempione, tesserine di mosaico bianco a coprire i muri imbiancati di fresco, stanze cento e aria di primavera anche quando fuori c’era il nebiùn e la segatura proteggeva dallo sbandamento sui marciapiedi di ghiaccio. Dentro, le telecamere sembravano mostri fantascientifici del telefilm americano Ai confini della realtà che sarebbe arrivato da noi agli inizi degli anni Sessanta. Nello studio per la programmazione, sul pavimento grigiastro, cavi lunghi come serpenti, cameraman professorali e, al fianco, un aiuto a spingere il pesante e scomodo arnese per cambiare posizione, tutti i tecnici doverosamente in camice bianco come in un ospedale, vigili del fuoco pronti ad intervenire in caso di combustione, una truccatrice, a volte parrucchiera e anche costumista, un assistente di studio, un addetto alle luci, trattavasi poi di riflettori, in casi speciali un assistente musicale, ovviamente regista e segretaria aggiunta.

Eppure si andò in onda, come si usava dire già ai tempi della radio, in onde medie per modulazione di frequenza. Milano era enorme per gli immigrati, lontanissima, guardandola dal sud, treni di fumo nero e posti in piedi, cuccette, cestini da viaggio, una fredda coscia di pollo, formaggino Mio, una triste pera o arancia, l’alba offriva cieli bassi e le prime case della città grandiosa. Parenti, emigrati nei primo dopoguerra, ad attenderci alla stazione, poi la scoperta della magia, il palazzo di corso Sempione, incuteva rispetto e pure timore, dentro accadevano cose che noi umani, bambini e giovani e maturi e vecchi, non potevamo immaginare, per tutti, il massimo del divertimento erano teatro e cinematografo. Mio padre fu trasferito dalla sede di radio Bari, nella quale era entrato, giovanissimo, come aiuto tecnico, durante la guerra( «Qui radio Bari ci avete chiamato?», fu uno dei tormentoni di Alto Gradimento). Milano era l’altro mondo, così la televisione.

Primi mesi di studio, conoscenza, apprendimento per noi terùn de l’ostia, poi il trasloco a Torino, città più aspra per i meridionali, ghetto dei napuli come venivamo battezzati tutti quelli che approdavano da fuori, per la Fiat o per la nuova storia, la tivvù. Sotto la mole Antonelliana, al numero 7 di via Montebello, un piccolo edificio a un piano, con i muri sbrecciati dalle ferite della guerra, conteneva i locali del centro di produzione torinese, mentre, dirimpetto, si imponeva, elegante ed austero, l’edificio di mattoni rossi, sito delle scrivanie dei grandi capi, Carucci direttore e l’ingegner Viarengo, asciutto nel fisico e amante dell’arte pittorica e scultorea. Marciapiede opposto, il gruppo dei lavoratori pensanti e agenti, i folti baffi di Folco Portinari, di cuore granata, fede rossa, la regista Alda Dada Grimaldi, poi Tabusso, Paloschi, Tapparo, Quattroccolo, Elda Lanza, Susanna Egri, Maurizio Corgnati, marito di Milva, Ugo Gregoretti, Silvio Noto, amici di famiglia, cognomi sparsi ma riuniti nella memoria viva come in una fotografia di classe, maestri manovratori, studiosi, interpreti, protagonisti dietro le quinte di un teatro infine racchiuso nei pollici del televisore, 18, 24, quelli in bianco e nero, con le manopole in bachelite, dotati doverosamente di un trasformatore, scatola misteriosa parallelepipeda con lucina spia di colore rosso, necessario per portare i 110 volt americani nei 220 nostrani sul tubo catodico di un apparecchio, marca, a caso e a memoria, Phonola, Telefunken, Philco, Philips.

Non sapevi come, non sapevi perché ma bastava ruotare la manopola e il televisore prendeva a scaldarsi, le immagini non apparivano immediatamente come oggi accade, c’era il tempo di accomodarsi sulla poltrona, sedia a dondolo o divano, poi, come dalla lampada di Aladino, dall’ombra nebbiosa, spuntavano volti e luoghi e musica, il telegiornale, laustero Riccardo Paladini, le cui grandi orecchie parevano le parabole satellitari, il circolo del Castori, Febo Conti, Enza Sampò, Mekkanor, quiz per bambini e per adulti, scienza e fantascienza, Mike e gli italiani all’inseguimento delle nostre pietre verdi. In via Arsenale, la Rai aveva allestito anche l’Ufficio Opinioni, in attesa dei devastanti e devastatori social, con una telefonista avevi la possibilità di esprimere il parere su un programma, sul presentatore o gli ospiti; critiche o complimenti, trascritti, venivano spediti con un fuorisacco a Roma, dove, agli ordini del piemontese presidente supremo, Sergio Pugliese, ex segretario del partito fascista di Ivrea, si provvedeva a intervenire là dove se ne ritenesse il bisogno.

La televisione per tutti ma non il televisore, la Fiat progettava le utilitarie Cinque e Seicento, si andava di cambiali, chi non poteva permettersi l’acquisto di un Phonola di cui sopra ricorreva all’amico benestante che esibiva in salotto l’articolo prezioso, coperto da un plaid sul quale troneggiava a volte una bambola, altre una luminosa gondola veneziana.

Ma c’era un’altra soluzione, il negozio di elettrodomestici, in vetrina campeggiava l’ultimo arrivato, televisore a 24 pollici, piazzato su apposito piedistallo, alle cinque e mezza del pomeriggio proiettavano un telefilm americano, Mio padre il signor preside, raduni di gruppuscoli di infanti futuri abbonati, davanti alla vetrina, pioggia e freddo o canicola erano asterischi a margine, oltre il vetro c’era il sogno. Giocavamo con la carta colorata di rosso delle caramelle e dei boeri, bastava appoggiarla sullo schermo per avere la televisione a colori. C’era il monoscopio, presente anche di notte e pochissimi ne conoscevano il mistero dei segni. L’antenna saliva o scendeva nell’apertura e nella chiusura delle trasmissioni, la musica del Guglielmo Tell trascinava a letto gli ultimi fedelissimi. Alla domenica mattina, in programma ovviamente la messa, fu necessario trovare qualcuno come voce narrante, oltre al parroco in funzione religiosa. Venne individuato nell’assessore allo sport di Torino, Franco Franchi, toscano di voce calda, dizione perfetta risciacquata in Arno, fui fortunato, l’assessore Franchi mi donava un biglietto per andare a vedere la partita di football al Comunale, dal sacro al profano in novanta minuti. Vennero i primi sceneggiati, tra i mille ricordo i Buddenbrook e c’è un motivo: mio padre mi raccontò le bizzarrie del regista (Fenoglio) il quale esigeva che nei cassetti dei mobili dell’arredamento di scena, fossero risposte posate di argento e vasellame in porcellana, anche se tutto questo non fosse esposto o utilizzato e che, nel cibo che veniva servito alla tavola della famiglia tedesca protagonista dell’opera di Thomas Mann, il prosciutto fosse di Praga, costringendo il trovarobe (sì, esisteva anche questo ruolo specialistico) all’improbabile e precipitoso acquisto dell’insaccato presso una rinomata ed esclusiva salumeria del centro di Torino.

Era una televisione di esperimenti e voglie capricciose, non ancora smaccatamente politicizzata e distribuita per partiti, democristiana all’osso, bacchettona con variazioni al peccaminoso, calze nere per nascondere gambe belle e bianche, le Kessler e Zizì Jeanmaire ma prime polemiche nelle tribune elettorali gestite da Granzotto, De Luca, Jacobelli, dinanzi ai lazzi e scazzi di Pajetta con il sulfureo cronista Romolo Mangione Quando arrivò il secondo canale, scoppiarono le prime faide o farse, le troupe che dovevano uscire per i servizi di cronaca, partivano con l’ordine segreto scritto in una busta sigillata così che i funzionari dell’altro canale non fossero a conoscenza dell’oggetto della missione. Un triangolino bianco, in basso a destra sullo schermo, informava i telespettatori che stava per incominciare un programma sull’altra rete.

Pagine di Rai e storia di Italia, cronaca minima, davanti a un televisore, dentro uno studio, fette di vita vissuta e mai dimenticata, il palazzo di corso Sempione è svanito come la nebbia, la casetta di via Montebello è un vuoto presepe. Anche i treni dal sud non hanno più fumo nero e nessuno sa che cosa fosse il formaggino Mio.

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