Un’avventura di carta: la vita libraria di Giovanni Floris

Un'avventura di carta: la vita libraria di Giovanni Floris

Una biblioteca può assomigliare alle linea della vita, che per ognuno di noi non è mai una sola, ma è vissuta, immaginata, sospirata e dimenticata o scantonata per un attimo in più o in meno, slabbrata o rammendata, diversa da come te la ricordi e riscritta per assecondare il tuo demone, che comunque ti inchioda allo specchio e costringe a riconoscerti.

Sembra strano ma dentro un ordine sparso di libri queste cose si affollano, si rincorrono e si confondono. L’idea di fare ordine può essere una scommessa poco saggia, perché ti sbatte in faccia un «chi sei», «cosa volevi essere» e «cosa sei diventato». Poi ci passi sopra. Il giudizio il più delle volte resta in sospeso. La buona notizia è che i tuoi libri non mentono. Sono un punto di riferimento, sentiero e orizzonte, e se li guardi a ritroso ti accorgi, spesso stupendoti, che sono la cartografia di un’esistenza. L’hai seguita senza neppure accorgertene.

È quello che accade a Giovanni Floris, quando si libera della scatola magica, in L’essenziale, appunti di un lettore avventuroso (Solferino, pagg. 188, euro 16,50). È la biografia di un lettore disordinato, che incrocia quasi per caso quelli che diventeranno le cattedrali e i santi di un immaginario, il suo e di ciò che lo circonda. «Io leggo per restare umano». I libri sembrano nascondere un destino, incroci che qualche volta ti segnano la vita.

È un giorno di ottobre del 1986. Giovanni è uno dei cento. Stanno tutti lì per la prima volta nell’aula 1 di Scienze politiche, via Pola. All’ingresso c’è scritto Luiss. Il professore è molto più giovane di quanto ognuno se lo ricordi. È appena arrivato a Roma da Padova. Si chiama Dario Antiseri. «Era il nostro professore di Metodologia delle scienze sociali. Potremmo chiamarla la scienza che definisce le scienze: ti insegna che non hai mai a che fare con certezze, ma con approssimazioni. Fu lui a raccontarci la storia del tacchino filosofo che ogni mattina alle nove riceveva il mangime dal fattore. Passavano i giorni, le settimane, i mesi, col caldo e col freddo, con la pioggia e con il sole, perfino con la neve, alle nove del mattino arrivava il cibo. Il tacchino induttivista a quel punto stabilì: mi danno sempre il mangime alle nove del mattino. Era il 24 dicembre, e il mattino dopo, alle nove, il fattore lo sgozzò».

Antiseri è Popper. È La società aperta e i suoi nemici. È il Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein. È la lezione che ti insegna a muoverti per tentativi e errori, alla ricerca di una verità senza V maiuscola, ma qualcosa verso cui tendere. Antiseri è il maestro che ti cambia lo sguardo, il modo di guardare il mondo e ti rende immune a chi ti vende l’assoluto. L’autunno del 1986 è una delle porte scorrevoli di Floris. Non solo la sua. È la pietra d’angolo di un’avventura intellettuale che finisce per legare chi era lì quel giorno, un modo per riconoscersi, anche quando le vite quotidiane si snodano e si allontanano. Gli anni ’90 sono stati un viaggio nel deserto alla ricerca di una vocazione. Il giornalismo come una speranza, che per anni sembra irraggiungibile. Sono anni di illusioni e cadute. È lì che Floris si sente un po’ come Lord Jim, continuamente alla ricerca di un’occasione. «In questa storia tra la ragione e il torto non c’era neanche lo spessore di un foglio di carta». È invecchiando che l’orizzonte accelera e ti accorgi che la metafisica è l’unica cosa che dia un senso alla realtà. Non è la ricerca di Dio, ma la tendenza a lasciarsi scivolare i frammenti di una vita, per guardare le cose da una prospettiva più ampia. È per questo che il romanzo da tenere vicino il più possibile è Moby Dick di Melville. «Parla di cosa vale la pena fare e sacrificare per soddisfare un’ambizione e di cosa finiamo col perdere per inseguire un’ossessione». È un confine, sottilissimo, e ogni giorno ti sbatte davanti a mille frantumati specchi.

Leave a comment

Your email address will not be published.