Il leader è solo. La classe dirigente è una lotteria

Il leader è solo. La classe dirigente è una lotteria

C’è chi ha messo in relazione le parole del capo dello Stato nel discorso di fine anno contro la diffusione delle armi e il colpo sparato tre ore dopo dalla pistola del parlamentare di Fratelli d’Italia, Emanuele Pozzolo, alla festa di Capodanno del sottosegretario Del Mastro. Pura coincidenza naturalmente visto che non è ancora provato che il presidente Mattarella abbia doti divinatorie. In realtà c’è un’altra parte di quel discorso su cui varrebbe la pena di riflettere – sia a destra che a sinistra – quando l’inquilino del Quirinale esorta i giovani ad esercitare il diritto di voto perché «è il voto libero che decide non lo stare sui social». Ma votare chi? Il giusto richiamo si porta dietro, infatti, un non detto che è presente nelle atmosfere evocate dal capo dello Stato ed è suffragato da una lunga serie di vicende che coinvolgono molti di coloro che sono presenti nelle istituzioni e nelle categorie che contano nel nostro Paese: il declino della nostra classe dirigente.

La questione è un vecchio argomento di dibattito ma mai come ora c’è una distanza, un gap tra il Paese e chi lo rappresenta. Non è che in passato il problema non esistesse, ma l’ondata populista a destra come a sinistra – la perversione grillina dell’uno vale uno – ha messo a nudo il problema in termini drammatici. Di più, in passato c’erano dei meccanismi, delle consuetudini, dei palliativi per rendere l’argomento meno spinoso: una volta c’erano le scuole di partito; Silvio Berlusconi, specie all’inizio, tentò di cooptare delle teste d’uovo, basta guardare al numero di cattedratici che chiamò al governo o all’ondata di professori che fece eleggere nelle sue liste. Uno su tutti il mai rimpianto abbastanza Lucio Colletti. Ma ora questa sensibilità sul tema è venuta meno del tutto, non siamo al cavallo di Caligola ma poco ci manca. La selezione della classe dirigente, a parte rare eccezioni per chi vale di suo, avviene su tre criteri: la fedeltà; l’obbedienza; l’impossibilità accertata che possa fare ombra a chi lo nomina. Si tratta di criteri universali condivisi nel Belpaese a qualsiasi latitudine partitica o ideologica. Una ratio da cui derivano due patologie di non poco conto: da una parte si provoca un livellamento verso il basso delle nomenklature; dall’altro si determina una sorta di solitudine del leader. Condizioni che certo non aiutano partiti, istituzioni e Paese. Soprattutto, c’è un deperimento, appunto, della classe dirigente, un’assenza di ricambio, una carenza di competenze. E questo, se si vuole essere giusti, non riguarda solo la politica ma tutti i settori, financo la scuola e la cultura. Motivo per cui non ci si può meravigliare, tanto per fare un esempio, se ti ritrovi un Pecos Bill in Parlamento o, sull’altro versante, un consigliere della Corte dei Conti che considera un’occasione persa non aver fatto precipitare l’Italia nell’esercizio provvisorio.

Solo che questo limite, queste contraddizioni, questi paradossi poi si riverberano nel rapporto tra Paese e istituzioni: l’elettore si sente privo di una rappresentanza e sceglie sempre il nuovo (basta guardare alle elezioni degli ultimi dieci anni) per poi scoprire, suo malgrado, di aver scelto il peggio visto che il nuovo non sempre va a braccetto con il meglio. Ma, soprattutto, delusione dopo delusione, specie i giovani, si disabituano al voto, non credono più alla loro possibilità di incidere, si sentono più appagati da un like che non dalla partecipazione ai meccanismi della politica e non solo. E alla fine, il vero pericolo adombrato da Mattarella, perdono fiducia nella democrazia.

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