La ragazza selvaggia che venne dall’America e diventò una dama

La ragazza selvaggia che venne dall'America e diventò una dama

Nel 1755, Jean-Jacques Rousseau battezza l’unico dei suoi figli che amò davvero: il «buon selvaggio» (degli altri cinque, quelli in carne e ossa, poco per volta si liberò, parcheggiandoli fra i trovatelli). Esce infatti il Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes, manifesto del buonismo al naturale, senza conservanti, ma con molti edulcoranti. Nello stesso anno, sempre in Francia esce un altro libretto decisamente meno, anzi per nulla, edenico, sebbene scritto da una dama di carità, che riguarda una selvaggia autentica, peraltro non particolarmente buona (anche se aveva le sue buone ragioni, come vedremo). Infatti, giunta alla soglia dei settant’anni madame Marie-Catherine Hecquet pubblica Histoire d’une jeune fille sauvage, trouvée dans les bois à l’âge de dix ans. La fille in oggetto, all’epoca non era più sauvage, essendo da poco diventata una signora piccolo borghese, grazie alla pensione da 240 sterline annue concessale niente meno che dalla regina consorte di Francia e Navarra, Marie Leszczynska, moglie di Luigi XV.

Storia della bambina selvaggia (pagg. 96, euro 14, a cura di Graziano Benelli) è il titolo con cui le Edizioni Elliot ci propongono ora questa storia esemplare in cui leggiamo in controluce gli imbarazzi e le ipocrisie della civiltà evoluta quando si trova a gestire i non civilizzati. O i de-civilizzati… «Il primo passo verso la civilizzazione – scrive Benelli – consiste nel privare la piccola selvaggia della libertà, al fine di sottometterla a un’assimilazione sociale e religiosa imposta rigidamente, quell’assimilazione contro cui – duecento anni dopo – si batteranno i poeti della négritude, da Aimé Césaire a Léopold Sédar Senghor.

Era accaduto questo. All’inizio di settembre del 1731, a Songy, villaggio della regione della Marna, venne trovata una ragazza sui vent’anni (non una bambina, come dice l’autrice): «Era a piedi nudi, aveva il corpo coperto di pelli e di brandelli di stoffa, in testa portava una zucca vuota, il viso e le mani erano scuri come quelli di una persona di colore. Era armata di un bastone corto ma grosso sulla punta, una sorta di clava. I primi che la videro fuggirono gridando: Il diavolo! Il diavolo!». La giovane scappa sugli alberi, si tuffa nel fiume a catturare pesci che mangia crudi, urla come un’ossessa, non permette a nessuno di avvicinarla. Al duro impatto con il popolo, segue quello con la nobiltà. Il visconte di Épinay, che si trova nel suo castello, ordina di arrestarla. Una misura cautelare, un avviso di garanzia: essendo palesemente senza fissa dimora, va agli arresti domiciliari in casa di un pastore. Un disastro: tentativi di fuga, conigli scuoiati, aggressività. Trasferimento al collegio di Saint-Maur, a Châlons, e, qualche mese dopo la cattura, il battesimo. Nel frattempo si ottiene da lei, che mostra di conoscere qualche parola di francese, un minimo di socializzazione. In breve, passata da una struttura correzionale all’altra, vestita dignitosamente, educata in parte a un regime alimentare degno di questo nome, imparata bene la lingua, e per giunta anche a scrivere, Marie-Angélique Memmie le Blanc, così viene chiamata, può mettersi alle spalle il suo (ancora misterioso) passato.

Ma da dove arrivava? Se lo chiesero in molti, compresa ovviamente madame Hecquet quando, circa vent’anni dopo, la conobbe al convento delle Hospitalières nel faubourg Saint-Marceau a Parigi e ne divenne amica. E qui propone la seguente ipotesi: «Sappiamo che quasi tutte le nazioni europee, che possiedono colonie in America, trasportano schiavi per coltivare la terra e per raccogliere i suoi frutti, come lo zucchero, il tabacco, il cacao, il caffè, ecc. I neri trasportati dall’Africa nelle Americhe, in un clima simile al loro, non hanno difficoltà ad abituarsi e a vivere nelle nuove terre. Invece non si è riusciti a naturalizzare i selvaggi provenienti dai Paesi settentrionali. Gli inglesi, gli olandesi e i danesi hanno, come i francesi, colonie in diverse isole delle Antille e più di una volta vi hanno portato qualche eschimese selvaggio che abitava nelle terre del Labrador, nel Canada del Nord. Suppongo che il capitano di una nave, partita dall’Olanda settentrionale, dalla Scozia oppure dalla Norvegia, abbia catturato alcuni nativi delle terre artiche o del Labrador e li abbia portati in qualche colonia europea delle Antille per poterli vendere».

Quindi, Marie-Angélique sarebbe stata di origine eschimese e avrebbe avuto un passato da schiava bianca. Insomma, una vera rarità. Ci sono tesi che contrastano questa. Su tutte, quella avanzata dal chirurgo e studioso delle origini dei bambini selvatici Serge Aroles, in Marie-Angélique: Survie et résurrection d’une enfant perdue dix années en forêt (2004) e derivanti dai documenti custoditi nell’Archivio Apostolico Vaticano: la ragazza sarebbe stata acquistata dai nativi nel 1718 da una dama francese, poi tornata in Europa con i suoi tre figli e con l’adottata Marie-Angélique. E quella del magistrato, filosofo e linguista scozzese James Burnett, Lord Monboddo (1714-1799) che conobbe la ex «bambina selvaggia», riteneva appartenesse al popolo nativo americano dei Meskwaki e di lei disse: «è tra le persone più intelligenti che abbia incontrato».

Comunque sia, la signora Hecquet riferisce queste parole di Marie-Angélique: «Perché Dio mi è venuto a cercare, portandomi via dagli animali feroci per farmi diventare cristiana? Certamente non per abbandonarmi e per lasciarmi morire di fame, ora che lo prego. Non sarebbe possibile. Conosco soltanto lui, Dio è mio padre, la Santa Vergine è mia madre, si occuperanno di me». Non sappiamo se Rousseau fosse a conoscenza di questo X-File antropologico dei suoi tempi. Se sì, avrà di certo considerato la femmina in oggetto una «cattiva selvaggia».

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