La parola che Mattarella non ha detto

@Quirinale

Nel campionario di buoni propositi sciorinati dal capo dello Stato nel discorso di fine anno mancava agli effetti un solo vocabolo: giustizia. Non quella superiore (che c’era, comprensiva di auguri al Papa) ma quella terrena, dei delitti e delle pene, dei tribunali, di quanto pure riempiva i giornali di fine di anno, e che, assicuriamo, presto tornerà a riempirli. Forse ci sarebbe solo da ringraziarlo, Mattarella, per averci dato requie soprattutto riguardo a un vocabolo che ormai fa effetto come gli emetici allo stomaco: «Intercettazioni». Di questo parlavano i giornali di fine anno, di questo riparleranno, di questo riparliamo noi (ora) pur col proposito di render conto degli anni passati appunto solamente a parlarne, con direttori e giornalisti pronti a immolarsi per quello che ancora chiamano «bavaglio» o presunto «dovere d’informare», ovviamente solo in caso di «rilevanza penale» (sempre eventuale, futura) o peggio di «rilevanza sociale» (a discrezione dei giornalisti) mentre alla truppa dei giornalisti si affianca quella dei politici senza che sia chiaro quale truppa copi l’indignazione dall’altra.

Negli ultimi tre o quattro lustri hanno detto semplicemente ogni cosa. Le posizioni, succintamente: 1) Di destra: vogliamo fare una legge che poi non riusciamo a fare; 2) Di sinistra: vogliamo fare una legge ma poi la sfibriamo o non la vogliamo più; 3) Posizione trasversale forcaiola (in vulgaris: del Fatto Quotidiano) incisa nella pietra quando alcune intercettazioni irrilevanti di Massimo D’Alema furono rimesse in discussione dal bimestrale Micromega («Siamo certi che siano penalmente irrilevanti?»), mentre a sciogliere l’arcano filosofico provvide in Tv Gianni Barbacetto del Fatto (Omnibus, La7) che trovò «benemerito raccontare che cosa dicono i politici quando pensano di non essere ascoltati. A me del piano penale non importa nulla, a me interessano i fatti… Le persone che si telefonano raccontano loro stessi». I politici, ossia, andrebbero intercettati sempre, e sempre pubblicati. La differenza con la Stasi (i Servizi della Ddr) è che la Stasi non pubblicava nulla. Ma azzardiamo una cronologia, che tuttavia avvertenza fermiamo a una decina d’anni fa perché tanto la canzone è rimasta la stessa.

2001, basta intercettazioni

Il senatore dei Ds Guido Calvi, in luglio, presentò un disegno di legge (il n. 489) e la proposta fu definita dal centrodestra «una buona base di partenza». Era il periodo in cui il segretario diessino Piero Fassino denunciava un certo «voyerismo mediatico» e invocava a sua volta «una normativa più adeguata». Durante il governo Berlusconi dilagavano le intercettazioni sui furbetti del quartierino e sul governatore Antonio Fazio, e la sinistra si disse disponibile a una neo-secretazione a mezzo delle multe salate proposte dal Guardasigilli Roberto Castelli: l’8 agosto 2005 ancora il diessino Calvi denunciava «un vuoto normativo che va colmato al più presto», mentre da capogruppo Ds, nella Commissione giustizia, si diceva d’accordo con Silvio Berlusconi sulla necessità di mettere mano alla normativa. La convergenza era totale, ma d’un tratto tutto cambiò.

Ci volle una vita (si arriva al 2006) per far approdare in Parlamento una proposta firmata dal guardasigilli Castelli: ma la sinistra si disse improvvisamente contraria perché c’era la campagna elettorale alle porte. Vinse Romano Prodi, questo prima che una serie di accadimenti spianasse la strada alla terza posizione della sinistra sul tema: gli arresti del portavoce di Gianfranco Fini e di Vittorio Emanuele di Savoia, Vallettopoli e Calciopoli, un’orgia di intercettazioni sui giornali. L’allora senatore dell’Unione Antonio Polito propose una commissione d’inchiesta sulla diffusione selvaggia delle intercettazioni nonché di «sanzionare i giornali».

Cominciavano anche a circolare le intercettazioni tra parlamentari diessini e indagati nelle inchieste sulle scalate Antonveneta, Bnl e Rcs. E allora, il 12 giugno 2007, disse il ministro dell’Interno Giuliano Amato: «Non è possibile che dalle sedi giudiziarie esca tutta questa roba, è una follia tutta italiana». Disse Piero Fassino ai microfoni di Sky Tg24 nello stesso giorno: «È chiaro che qui si punta a colpire l’onorabilità del partito e di qualcuno di noi». È su questa terza posizione, la più decisa e sostenuta, che entra in scena il ministro della Giustizia Clemente Mastella.

2007, basta intercettazioni

Il 28 luglio di quell’anno Mastella propose 15 articoli che furono una dichiarazione di guerra. Tra i propositi: multe da 5mila a 60mila euro; divieto totale di pubblicazione di atti sino alla conclusione delle indagini preliminari; fascicolo del pm segretato sino alla sentenza d’appello; limiti temporali alla possibilità d’intercettare. Questo mentre Massimo D’Alema, secondo La Repubblica del 29 luglio 2007, arrivò a dire: «Voi parlate di tremila euro, di cinquemila euro: ma li dobbiamo chiudere, quei giornali. Ci sono stati episodi scandalosi in cui materiale senza nessuna attinenza con l’inchiesta è andato a finire sui giornali».

Il provvedimento venne limato e ri-limato. Mario Pirani, su Repubblica, si spinse a scrivere: «Se Berlusconi dettava leggi ad personam, qui siamo di fronte a una legge ad personas, intesa cioè nell’interesse della classe politica».

Questa terza posizione della sinistra continuò a essere condivisa anche dal centrodestra (c’era divergenza solo sull’entità di multe e sul periodo di detenzione), ma occorse attendere sino all’aprile 2007 perché la legge Mastella andasse al voto. C’era unanimità o quasi: 447 sì, nessun no. La norma era severa: multe da 10mila a 100mila euro e segretazione totale delle indagini preliminari, come già prevedeva il Codice penale del 1989. S’indignarono solo il solito Antonio Di Pietro e gli alter-ego alla Marco Travaglio, che scrisse: «Esiste una vasta gamma di comportamenti che, pur non costituendo reato, restano riprovevoli o comunque interessanti e devono giungere alla conoscenza dei cittadini». A sinistra, in compenso, l’onorevole Lanfranco Tenaglia della Margherita definì la legge «un punto di equilibrio alto e nobile» al pari di Gaetano Pecorella (Forza Italia) che parlò di «buona riforma varata col contributo dell’opposizione». Quella legge fu sostenuta da tutti i gruppi parlamentari. Dettaglio: si arenerà al Senato: resterà, come il governo Prodi, lettera morta.

2008, basta intercettazioni

Liquidiamo la quarta e quinta posizione della sinistra. Walter Veltroni si riallacciò all’abortita legge Mastella prefigurando «il divieto assoluto di pubblicazione fino al termine dell’udienza preliminare», con tanto di «sanzioni penali e amministrative molto più severe». La posizione veniva ribadita da Veltroni anche durante un Porta a Porta del 13 febbraio. Ma la posizione quattro precedeva la numero cinque, accodata a quella di Antonio Di Pietro a sua volta accodata a quella dell’Associazione nazionale magistrati: i provvedimenti annunciati erano «gravi e sbagliati» mentre «è responsabilità degli stessi magistrati che le intercettazioni restino segrete». È permesso ridere.

2010, per sempre intercettazioni

L’Associazione della Stampa e i direttori di ogni testata nazionale (anche di centrodestra, gente ancor oggi in sella) fecero una chiassosa sfilata romana per opporsi strenuamente al ddl proposto dal ministro di centrodestra Angelino Alfano. Ai tempi pensavano ancora che le intercettazioni portassero copie. Furono coinvolte anche la Fieg e le «forze sociali».

2011, inventiamo le intercettazioni

È di quell’anno, spesso dimenticata, l’intercettazione-fake news più falsa ed economicamente dannosa del Dopoguerra: quella in cui Berlusconi definiva Angela Merkel «culona inchiavabile» e di cui il Fatto Quotidiano indicò persino la data e l’ora («le 11,53 del 5 ottobre 2008»), anche se l’intercettazione non è mai esistita, mai. Quell’invenzione sputtanò l’Italia nel mondo e causò danni spaventosi.

2013-oggi, una vita di intercettazioni

Da allora non è accaduto nulla di notevole. Si potrebbero citare i «dieci saggi» chiamati dal capo dello Stato a intervenire (anche) sulle intercettazioni che ovviamente ammisero la necessità di ridurne il numero, ma «le intercettazioni non sono una priorità» (Anna Rossomando, Pd, Commissione giustizia). Si potrebbe ri-raccontare il parto elefantiaco di Andrea Orlando (guardasigilli del governo Gentiloni) che fece titolare i giornali come al solito (Il Fatto: «Pd peggio di Berlusconi: bavaglio ai pm») ma poi si materializzò il guardasigilli Alfonso Bonafede e tutto s’invischiò, e insomma, non c’è neppure da parlarne, tantomeno in un discorso di fine anno al Quirinale.

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