Dopo un travaglio di oltre tre mesi il salvataggio dell’ex Ilva, come anticipato dal Giornale ieri, slitta a gennaio. Il cda di Acciaierie d’Italia (la società che controlla il gruppo) è andato in scena regolarmente per un’ora, ma dal confronto tra i soci (i consiglieri espressione di Arcelor Mittal al 62% e Invitalia al 38% erano tutti presenti) è scaturita l’ennesima fumata nera. Sicchè in vista del confronto di oggi tra governo e sindacati non ci sono stati passi avanti formali. La palla ora si sposta all’8 gennaio, quando l’esecutivo incontrerà direttamente il socio privato per un confronto diretto. L’obiettivo è definire le risorse necessarie al salvataggio in extremis e una (ormai quasi scritta) rinazionalizzazione.
Una partita che si poteva chiudere da mesi quando, a metà settembre, il Giornale ha rivelato i gravi problemi produttivi dell’azienda che con meno di 3 milioni di tonnellate di acciaio prodotte avrebbe mancato clamorosamente i target anticipati dall’ad Lucia Morselli a quota 4 milioni. Una crepa in quella sorta di vaso di Pandora che da quel momento ha rivelato mille problemi, denunciati uno dopo l’altro in questi mesi attraverso le voci dei tanti attori coinvolti (indotto, lavoratori, sindacati) che hanno trovato poi riscontro nel disperato allarme lanciato dal presidente di Acciaierie d’Italia Franco Bernabè. Dopo aver minacciato le dimissioni, il presidente ha espresso una profonda preoccupazione per lo stato dell’azienda che si stava «spegnendo per consunzione» invocando la pace tra i soci e l’urgenza di nuova finanza. Ma la distanza tra i due azionisti, quello pubblico e quello privato, è parsa sempre incolmabile. E ancora più ingestibile è diventata quando è emerso che la trattativa era passata dal tavolo del ministro per le Imprese Adolfo Urso a quello del ministro per le Politiche europee e il Sud Raffaele Fitto. Per diverse settimane la distanza tra i due ministri era tangibile. Sul tavolo di Urso c’era da mesi l’ipotesi di un amministrazione straordinaria controllata che avrebbe traghettato l’azienda verso il rilancio. Ipotesi rigettata da Fitto la cui posizione ha però allungato ulteriormente i tempi per una soluzione. A rompere lo stallo è stata la rivelazione di una trattativa parallela tra Fitto e Arcelor Mittal nella quale Invitalia era rimasta isolata. Da allora il governo ha dovuto ricompattarsi per trovare una nuova linea comune. Altro tempo che, nelle ultime settimane, ha alzato la tensione su tutti i fronti. Ora il dossier passa direttamente nelle mani dell’esecutivo.
Niente più cda o assemblee prima di un incontro diretto con gli indiani. Come detto, la data prevista è l’8 gennaio (il 10 gennaio ci sarà la sentenza del Tar per la sospensione o meno del gas agli impianti). Sul tavolo resta l’aumento di capitale di AdI: 320 milioni solo per scongiurare il blocco della fornitura, mentre servirebbe un miliardo in più per il rilancio del sito. Resta in piedi anche l’ipotesi di acquisire gli impianti da Ilva Spa in amministrazione straordinaria a un prezzo tutto da definire.
Qualora Arcelor si ritirasse dal fare la sua parte, si fa largo una sorta di rinazionalizzazione a tempo. Invitalia dovrebbe salire al 62% convertendo il prestito obbligazionario di 680 milioni erogato a febbraio. La controllata del Mef avrebbe così il controllo di AdI per il tempo necessario a coinvolgere un altro socio privato, diluendo pian piano Arcelor. I gruppio Arvedi, Marcegaglia e l’ucraina Metinvest sono alla finestra. Urso e Fitto temono però un’azione giudiziarie del colosso franco-indiano che potrebbe pretendere indennizzi miliardari. Un’incertezza inaccettabile per i sindacati che ieri hanno minacciato azioni forti, anche legali.