Dieci anni dopo sappiamo ancora meno di quando, il 29 dicembre 2013, Michael Schumacher ha spento la luce. Hanno vinto la voglia di privacy e la volontà della famiglia, più forti dell’amore di milioni di tifosi che avrebbero voluto conoscere le sue condizioni reali. Non per curiosità morbosa, ma semplicemente perché Michael aveva realizzato i loro sogni nel corso della sua carriera e avrebbero voluto continuare ad averlo nei loro pensieri. Chi sa come sta davvero non parla. La Bild ieri raccontava che per stimolare la sua attività cerebrale sarebbe stato portato anche a girare in pista, a bordo di una Mercedes-Amg. Una notizia che nessuno conferma. E l’unica frase che ci racconti qualcosa resta quella pronunciata da sua moglie Corinna quando uscì il docufilm su Netflix: «Michael c’è, è diverso ma c’è. Non ho mai incolpato Dio. È stata solo sfortuna, poteva capitare a chiunque. Certo, mi manca ogni giorno. Ma non sono l’unica a cui manca. I bambini, la famiglia, suo padre, tutti intorno a lui. Michael manca a tutti. Ma Michael c’è. E questo ci dà forza, credo». C’è ma è diverso. Anche se Jean Todt a L’Equipe ha detto: «Non posso dire che mi manca. Ho condiviso con lui molti momenti e sono onorato di poterlo fare ancora. Non mi manca perché lui, alla fine, c’è». I figli Gina Maria e Mick vanno avanti per la loro strada, postano foto con fidanzato e fidanzata. Avrebbero bisogno dei suoi consigli, della sua guida, ma ormai hanno imparato ad affidarsi solo alla mamma che si è trasformata nell’angelo custode del suo amore.
Michael d’altra parte aveva già lasciato molti insegnamenti. Non solo ai piloti che sono venuti dopo di lui e che, fateci caso, hanno tutti preso qualcosa di suo, da Vettel a Hamilton, fino a Max che da bambino frequentava il suo box accanto a papà. «Michael era una persona speciale con un’attenzione particolare per le persone a cui voleva bene. Ricordo come si preoccupasse di mettere una zanzariera sulla culla dove dormiva sua figlia quando veniva da me sui colli bolognesi», ricorda Luca di Montezemolo che racconta sempre come lo costringesse a chiudere la finestra del suo ufficio a Maranello per non fare entrare dell’aria forse inquinata. Nelle interviste raccontava come avesse imparato a cambiare i pannolini, fiero di essere più veloce di Hakkinen che era diventato padre nello stesso periodo. «Una volta lo portai a casa mia a Sabaudia – racconta spesso Malagò e mi ricordo quanto fosse maniacale nell’impostare la temperatura in auto. Non un grado in più, non uno in meno». Amava la precisione, nella vita come in macchina. Chiamava per nome i suoi meccanici, chiedeva delle loro famiglie e tutti ricordano quel carretto dei gelati fatto arrivare in pista a Fiorano dove provava senza sosta anche in estate. Guardando l’uomo si può capire perché sia diventato un campione. E ricordando quanto fosse geloso della sua privacy si può capire perché attorno a lui sia calato il sipario. Nonostante l’amore. Come ci disse una volta Jean Todt: «Io non credo in Dio, ma da quando Michael ha avuto l’incidente ho incominciato a pregare».
#KeepFightingMichael.