Era stata un’illusione coi fiocchi: la stagione dello sci era partita con il botto a Sant’Ambrogio, ma rischia di non fare altre faville a San Silvestro. Molte località, abbandonate dopo il Covid le aperture anticipate di novembre, ormai poco remunerative, avevano aperto con il ponte dell’Immacolata, fregandosi le mani per livelli di presenze pre pandemia. Poi le temperature si sono alzate; alcune carezze del vento di favonio con la sua inversione termica sulle Alpi stanno, però, portando una nuova primavera. Peggio ha fatto la mano dello scirocco sugli appennini che soffrono, ad oggi, la situazione più grave, non solo per le quote più basse degli impianti, ma anche per l’inferiore coperture della neve programmata. Se su Alpi e Dolomiti le vacanze sono salve, con piste sostanzialmente tutte operative, sotto il Po, comincia il dramma. Le piste di Campo Imperatore sul Gran Sasso sono bloccate, invero, dalla burocrazia e da un contenzioso su cui si dovrebbe pronunciare presto il Mit, ministero dei trasporti, decidendo se servirà o meno un nuovo intervento di manutenzione di circa 3 milioni di euro. Sono, invece, a mezzo servizio Corno alle Scale, Cimone per non parlare delle più piccole ski area – capofila di un Appennino che andrà in bianco senza essere bianco. Dove la neve ‘tecnica’ – ormai guai a chiamarla artificiale o sparata – ha potuto essere preparata, si scia, con il solito effetto di boschi verdi solcati da lingue bianche di neve. Impossibile predisporre, però, altra neve con temperature che si aggirano anche sui 10 gradi sopra lo zero. E allora ci si interroga sul futuro. Fare la neve impatta sulle comunità con la necessità di avere bacini idrici per pompare acqua e pesa poi sul conto dello skipass. Quest’anno sciare con meno di 50 al giorno è un miraggio, con picchi che arrivano a 75-80 euro per un giornaliero in alta stagione, cioè ora. Fare la neve, del resto, costa: per un metro cubo servono dalle 3 alle 5 euro e lance e cannoni sparaneve impiegano 50 ore, con temperature lievemente sotto lo zero, per imbiancare un prato, dove agiscono battipista, sempre più smart e green, ma indubbiamente alimentati a carburante, tranne qualche eccezione ad idrogeno. Gli ambientalisti storcono il naso: vorrebbero un modello di turismo diverso. Eppure chi va in montagna lo fa per sciare in discesa. Gli altri sport, dal fondo, alle ciaspole, allo scialpinismo, restano degli stupendi riempitivi rispetto ad un core business tutto slalom e curve: «L’economia di montagna e il suo indotto sono trainate dallo sci alpino: con 400 aziende, 1,5 mld di fatturato e 15mila persone di cui un terzo a tempo indeterminato» spiga Valeria Ghezzi di Anef, la confindustria degli impianti a fune. Il governo ha recentemente varato nuove misure grazie alla pubblicazione della graduatoria sul fondo per l’ammodernamento, la sicurezza e la dismissione degli impianti di risalita. Il ministero ha messo a disposizione, nel triennio 2024 2026, 147 milioni di euro a cui si sommano i fondi per gli Appennini e per il bando «montagna Italia», per un totale di oltre 250 milioni di euro. «Un passo significativo per un asset strategico per il turismo» ha spiegato il ministro Daniela Santanché che non ha in mente solo i Giochi 2026: «Prevediamo l’integrazione del fondo con ulteriori 100 milioni di euro». La neve, intanto? I meteorologi sono certi: arriverà fra Capodanno e l’Epifania.