«La questione femminile rappresenta una delle forze dell’islam»: parola di ayatollah. E non un ayatollah qualsiasi, ma Ali Khamenei, Guida Suprema della Repubblica islamica dell’Iran. Il quale rimane serenamente indifferente (…)
(…) al fatto che da anni – ma in particolare dalla fine del 2022, quando la giovane Mahsa Amini fu uccisa dalla «polizia morale» perché non indossava a norma di legge il velo obbligatorio – le giovani donne iraniane sfidano a rischio della morte l’oscurantismo del suo regime. Le donne iraniane, secondo Khamenei, sono le più fortunate del mondo. Perché se fossero per disgrazia nate invece in Occidente, sarebbero state trasformate soltanto in «uno strumento per guadagnare profitto o piacere».
Insomma, invece di diventare donnine o donnacce come succede qui da noi, in Iran chi nasce femmina può godere appieno «della forte logica e delle basi razionali che l’islam possiede in tutte le aree che riguardano le donne». Ed ecco di seguito il pistolotto propagandistico che il capo del regime teocratico di Teheran ha rifilato alle delegazioni femminili giunte nella capitale iraniana per celebrare con lui l’anniversario della nascita della figlia del Profeta Maometto: «Non esistono restrizioni per le donne riguardo al lavoro o all’attivismo in politica, o in campo sociale e culturale. E perfino riguardo a questioni internazionali come l’attuale guerra a Gaza. A condizione però (eccolo, il però… nda) che queste attività non ostacolino i loro principali ed esclusivi doveri, ovvero prendersi cura della casa e della famiglia oltre che di crescere i bambini». Tutte queste attività, non va dimenticato, in Iran si possono svolgere in un solo modo: condividendo la linea del regime, ossia trasformandosi in un’attivista del regime stesso. Ogni altra manifestazione trasforma la donna in un nemico di Allah, degna quindi di persecuzione che può arrivare alla morte per mano dello Stato.
La donna dunque parola di Guida Suprema può e deve lavorare (se il marito è d’accordo), può occuparsi di politica, società e cultura solo secondo i dettami della religione di Stato, può manifestare la sua collera contro Israele e l’Occidente. Soprattutto, deve stare al suo posto: in casa a fare la moglie (sottomessa, come da Corano) e la madre. E, quando esce di casa, chiedere prima il permesso del marito: se lui non vuole che lei viaggi, niente. Anche sull’eventuale diritto al divorzio o alla custodia dei figli, dovrà rassegnarsi a leggi che sanciscono l’ineguaglianza dei sessi. Se finisce in carcere, poi, dovrà aspettarsi torture e stupri impuniti.
Meno che mai dovrà sognarsi di contestare il dovere alla «moralità dei costumi»: «Massima attenzione a non suscitare attrazione sessuale sul posto di lavoro», velo in testa e vestiti castigati, pena le giuste aggressioni della polizia morale, che possono anche rivelarsi fatali, come è accaduto di recente a una ragazza di 16 anni nel metrò di Teheran. E, in caso di manifestazioni di piazza, sapere che i cecchini del regime mirano agli occhi delle donne che si tolgono il velo: tanto, in Occidente, quasi nessuno le difenderà. Abbiamo ben altro di cui indignarci, noi, qui c’è il patriarcato!