Ci sono persone capaci di presentire l’arrivo di un evento sinistro, ma più che un dono celeste si tratta di una sciagurata facoltà, poiché, come antiche Cassandre, non possono né persuaderne gli altri né preservare se stessi». Così scriveva Gérard de Nerval nella sua prefazione a Le Diable amoureux di Jacques Cazotte, quando fu pubblicato a Parigi, nel 1845 (riprodotta in parte nell’edizione di Il mago Maugraby di Cazotte pubblicata da L’orma, pagg. 186, euro 22, con le bellissime illustrazioni di Prisca Milanese). Il diavolo innamorato è l’opera più celebre di Cazotte e, parlando del destino amaro dei profeti di sciagure, De Nerval si riferiva proprio al suo autore: nato a Digione nel 1719, precursore del genere fantastico, inventore di storie sulla scia delle Mille e una notte e, insieme, ufficiale di Marina nella remota Martinica, esoterista, fautore di divinazioni, religioso e monarchico convinto nel secolo dei Lumi… L’anno in cui morì Cazotte, il 1792, e il luogo, Parigi, lasciano intuire le circostanze della morte: finì ghigliottinato, travolto dalla Rivoluzione che aveva osteggiato con forza, tentando perfino di far liberare Luigi XVI, il re a cui era rimasto sempre fedele. Ma di tutto ciò, appunto, Cazotte aveva una sua personale precognizione: così, almeno, tramanda la leggenda, vera o inventata che sia, che il contemporaneo Jean-François de la Harpe racconta in La profezia di Cazotte, testo che ora si può leggere, pubblicato dalle Edizioni Settecolori, insieme a L’ultimo pasto di Cazotte, scritto da Paul Morand un secolo e mezzo dopo (pagg. 74, euro 12; traduzione e cura di Stenio Solinas).
Perché Cazotte? Perché Cazotte, nel fiume di un mondo che seguiva la corrente rivoluzionaria e illuminista, era un salmone, testardamente inamovibile dal principio di usare la propria, di ragione, e non quella imperante, che fosse quella del razionalismo spinto, quella di Stato o quella del Terrore. Ecco allora che Paul Morand immagina che il giovane scrittore inglese Matthew G.
Lewis si rechi in visita all’anziano Cazotte, che attende la fine circondato da moglie e figlia, per fargli leggere l’inizio di Il monaco (considerato un capostipite del genere gotico); e che, chiacchierando, affiori la « questione della profezia sulla Rivoluzione che sarebbe avvenuta e poi finita nel sangue, pronunciata durante la celebre cena raccontata da La Harpe. Spiega Cazotte a Lewis: «Il mio mestiere, signore, non consiste nel dire la sventura. Mi accontentai di annunciare che la fine era imminente.
Non c’era bisogno di divinazione nel 1788 per augurare il 1789». «Che cosa vi si replicò?» chiede Lewis, e Cazotte: «Naturalmente, come ogni uomo in anticipo sul proprio tempo, fui tacciato di reazionario». Reazionario prima ancora della Rivoluzione: più controcorrente di così…
Quanto alle capacità profetiche, Cazotte si limita a una spiegazione sibillina: «Io non credo alle divisioni del tempo. Ho imparato a leggerlo di piatto; per me non si srotola come uno scampolo di stoffa o come un fiume, è eterno, senza rilievi». E, in questo tempo eterno, gettando il suo sguardo «di piatto», lo scrittore intravede ciò che sarà della sua Francia. A raccontarlo è La Harpe, allievo di Voltaire, convertitosi prima all’eccesso della razionalità e poi ri-convertitosi a una ragione che lasci spazio al mistero, al favoloso, all’inspiegabile, più vicina a Cazotte, insomma. Quella cena leggendaria si svolge «all’inizio del 1788»: «Eravamo ospiti di uno dei nostri colleghi dell’Académie, gran signore e uomo di spirito». I commensali si divertono fra «racconti empi e libertini», tirate contro la religione, citazioni dei «versi filosofici di Diderot», elogi di Voltaire e, a un certo punto, «ci si mette a calcolare la probabilità dell’epoca, e chi, della compagnia, vedrà il regno della ragione».
L’unico non entusiasta di tutte queste conversazioni è Cazotte, «uomo amabile e originale», che però diventa serissimo quando afferma: «Signori – dice – state sereni, vedrete tutti questa grande e sublime rivoluzione che tanto desiderate (…) Sapete che cosa arriverà da questa rivoluzione, che cosa arriverà per voi tutti»? E segue la profezia, personalizzata per ciascuno degli ospiti: «Voi, M. de Condorcet, morirete steso sul pavimento di una cella; morirete del veleno che avrete preso per sottrarvi al boia, del veleno che la felicità di quel tempo vi costringerà a portare sempre con voi»; «voi, M. de Nicolaï sul patibolo; voi M. Bailly sul patibolo… Voi, M. de Malesherbes, sul patibolo…» E gli ospiti ridono, sghignazzano per questi sogni a occhi aperti del fin troppo «originale» Cazotte, ma lui non molla: «Non passeranno sei anni e tutto quello che vi dico sarà accaduto». E, alle obiezioni dei commensali, che tutto questo sangue sia contrario all’ideale dei Lumi, lo scrittore replica: «È precisamente quello che vi dico: è in nome della filosofia, dell’umanità, della libertà; è sotto il regno della ragione che vi succederà di finire così, e questo sarà proprio il regno della ragione, perché allora ella avrà dei templi»… Ma la profezia del visionario/reazionario Cazotte non finisce qui, e si mescola con il buio del mondo intravisto dal suo connazionale Paul Morand, in pieno Novecento.
Nell’Ultimo pasto di Cazotte, lo scrittore si complimenta con Lewis per il suo romanzo Il monaco e poi aggiunge: «Questo romanzo nero, potete viverlo qui in piena luce senza che ci sia bisogno dei vostri lugubri castelli: si chiama la Rivoluzione, per il momento francese. Gli esseri inferiori sono scatenati, Calibano è re… Dopo il Calibano bianco, verrà l’ora del Calibano nero, del Calibano giallo…» E dopo?, gli chiede preoccupato Lewis. «Dopo verrà l’avvento della scimmia» che, spiega Cazotte, è «colei che imita meglio l’uomo»; ma non è ancora finita, perché «Dopo sarà il regno delle cose, su una terra dove i viventi saranno scomparsi». Fa paura? Beh, dice Cazotte «si comincia, come a Parigi, al grido di “Abbasso i tiranni! A morte i despoti!”. Ma il tiranno peggiore è l’autocrate nato dalla plebe e il più potente dei despoti è l’Anticristo».
Morand però – come scrive Stenio Solinas nella postfazione – amava Cazotte non solo per la «comune matrice contro-rivoluzionaria»: «In quest’ultimo, come scrittore, egli vede anche il perfetto rappresentante di quel genere settecentesco del racconto di cui, non a torto, si riteneva un degno erede». Per gustare il Cazotte narratore basta sfogliare le storie di Il mago Maugraby, una specie di prosecuzione delle Mille e una notte in chiave magica sì, ma anche malefica, pubblicata a Ginevra nel 1789, a ridosso della Rivoluzione. Il mago Maugraby è «la più detestabile creatura» sulla terra, un uomo malvagio, dedito a «servire Zatanai», che lo ha reso «potentissimo e capace di ogni perfidia». Questo mago terribile si insinua nel regno del re siriano Habed-il-Kalib, che vuole un figlio a tutti i costi, e rovinerà la vita alla famiglia intera. Inutile tentare di fregarlo odi sconfiggerlo: il mago è più abile e astuto degli uomini, resi ciechi da bisogni e ambizioni e incapaci, perciò, di scorgere il Male, anche quando è evidente. A differenza di Cazotte, il quale il Male lo intravide benissimo, anche se non poté farci nulla, nemmeno per sé…