Catene, cinghie, cinquanta ragazzini che si pestano nel centro di un paesino della Bassa. Un mese fa, venti minorenni, due bande di pachistani e afgani, che si sono sfidati a sprangate in centro a Trieste. E ancora le pandillas sudamericane a Milano, le gang di ragazze che minacciano gli studenti, i petardi lanciati a Roma contro cani e passeggini.
Il fenomeno delle baby gang, della violenza gratuita delle bande di adolescenti – spesso stranieri – che esonda nelle nostre città, non è un fenomeno nuovo. Quello che forse è nuovo è il raggiunto limite di sopportazione da parte della popolazione. Perché durante la pandemia abbiamo letto fior fior di analisi sulle motivazioni psicologiche e sociologiche di tali comportamenti. Ci hanno spiegato che la frustrazione, la chiusura, la mancanza di socialità legate al lockdown avevano trovato una naturale valvola di sfogo nei pestaggi su appuntamento. Poverini, ci eravamo detti tutti, in effetti non è facile essere adolescenti chiusi in casa dai decreti. E l’intera opinione pubblica aveva solidarizzato con una generazione violenta controvoglia, violenta per reazione.
Il fatto è che i lockdown sono finiti da un po’ e le risse continuano, anzi si moltiplicano. Da Peschiera del Garda a Casalpusterlengo, stanno appestando la vita di provincia dopo aver contribuito a rendere insicure le metropoli. Ma se i cittadini dei grandi centri per certi versi le mettono in conto, quelli che vivono nella quiete dei paesini non hanno intenzione di accettarle. E alle giustificazioni degli psicologi preferiscono giustamente il rigore delle forze dell’ordine.
Comprendere è necessario, ma non sufficiente a stroncare il fenomeno. L’unica cosa che al momento chiedono gli italiani di tutti i campanili. Ecco perché forse quella legge voluta dal governo e tanto sbertucciata dalla sinistra, forse tanto impopolare non è.