L’ho inseguito per anni. L’ultimo assalto sembrava quello buono.
Charles Wright reca con sé la leggenda. Nato a Pickwick Dam, Tennessee, nel 1935, diplomato al Davidson College si arruola, poco più che ventenne, nell’esercito americano. Il ragazzo è di stanza a Verona. «L’esercito è stato generoso con me, molto più di quanto io sia stato con lui. Ho dato allo U.S. Army quattro anni della mia vita e l’esercito mi ha restituito alla vita». Secondo la leggenda, nel marzo del 1959, a Sirmione, Charles Wright legge Ezra Pound: edizione Guanda, con testo a fronte. Pound era sbarcato in Italia l’anno prima, dopo dodici anni di infame reclusione nel manicomio criminale di Washington D.C. Più di tutte, lo colpì una poesia giovanile, Blandula, Teulla, Vagula, dove si parla di un’anima «Che hai a fare, anima mia, col paradiso?» e di Sirmione, osservata in «un’aureola di luce». Fino ad allora, Charles Wright aveva scritto racconti distratti, sotto dettatura dei suoi miti, William Faulkner e Thomas Wolfe. «Leggendo Ezra Pound scoprii una forma letteraria adatta alle mie inclinazioni mentali ed emotive: più di tutto, imparai dai Pisan Cantos e da Cathay».
Quando rientra negli Stati Uniti, Charles Wright smette i panni del soldato per quelli del poeta. Nel 1963 ottiene una borsa di studio per lavorare alla Sapienza e all’Università di Padova: vuole tradurre Eugenio Montale (la sua versione de La bufera e altro uscirà nel 1978, quella dei Mottetti nel 1981). Pound gli fa conoscere Dante, di cui traduce alcuni canti dell’Inferno; nel 1984 pubblica la propria personale interpretazione dei Canti orfici di Dino Campana, che insieme alla Bibbia, ai poeti cinesi di epoca classica, ai canti rituali degli indiani d’America e ai resoconti dei pionieri che nelle Grandi Pianure fondavano città ventose e parziali, tramortiti da un fecondo odore di sangue, costituisce una delle sue fonti perenni. Nel 1970 esce la prima, organica raccolta di versi, The Grave of the Right Hand; nel 1981 Wright dedica una poesia a Pia de’ Tolomei, eternata da Dante nel quinto del Purgatorio: «Come una pietra, o altra cosa grave, voglio discendere/ nell’acqua limpida/ eternamente/ svanire come fece lei,/ linea dopo linea dissolta, negli abissi lunari». La poesia s’intitola Laguna Dantesca ed è raccolta in The Southern Cross, uno dei libri miliari di Charles Wright. Con quel libro, Wright è finalista al Pulitzer Prize for Poetry. Impossibile vincere, quell’anno: il premio va, postumo, ai Collected Poems di Sylvia Plath.
Da allora, per così dire, se hanno senso simili discorsi in poesia, la carriera di Charles Wright non teme soste. Il poeta è per altre tre volte finalista al Pulitzer: lo vince nel 1998, con un libro di micidiale potenza, Black Zodiac, che insieme ad Appalachia (uscito, a formare una specie di dittico, l’anno dopo) non ha eguali nella poesia americana recente. L’unico paragone, piuttosto, è con Meridiano di sangue, il western apocalittico di Cormac McCarthy. Non è un paragone peregrino. Charles Wright è il Cormac McCarthy della poesia americana contemporanea. Non è un paragone peregrino, ripeto. Bisogna leggere Littlefoot (2007; ora edito da Crocetti, pagg. 220, euro 18), lenta ode della vecchiaia per capire il genio dei libri testamentari e definitivi. Questo monsonico poema in trentacinque lasse ha passaggi che ricordano Cavalli selvaggi e Oltre il confine, la saggezza spiazzante degli ambigui eroi di McCarthy: «Le bacche risplendono come piccole stigmate fra i cornioli,/ mille promemoria della mitologia dell’albero/ mentre la pioggia continua a lucidarli,/ come se potesse pulirli.// Così rossi e Pasqua così lontana». Se Cormac McCarthy compie, in ogni romanzo, massacro, Charles Wright giunge a levigare i cadaveri, a nettarli con compassata compassione, a oliare le ossa perché l’anima, grigia libellula, possa flottare, dalle narici, nel mutilato vento. Come Cormac McCarthy, Charles Wright è uno scrittore recluso nella propria stellata ritrosia. Ha insegnato a Irvine, California, e a Charlottesville, Virginia. Preferisce la solitudine al palco; è fermo, garbato: usa il sorriso per allontanarti. Dalla moglie, Holly, ha avuto un figlio, Luke; per anni ha fatto le vacanze in Montana. La solita, solida vita. Ha vissuto le onorificenze è stato eletto poeta laureato degli Stati Uniti per il biennio 2014-2015 come una mitragliata di foglie autunnali, alzando le spalle. Non è simpatico. Per questo al Nobel per la letteratura gli hanno preferito Louise Glück. Non ha a cuore la fama, non tosa l’erba della propria reputazione pubblica.
In Italia arrivò la prima volta nel 2001, con un’antologia curata da Antonella Francini, Crepuscolo americano, stampata da Jaca Book. Roberto Mussapi, in quarta, scrisse che Charles Wright è «americano come lo furono Whitman e Pound, convoglia l’entusiasmo nel fuoco lirico, nella sua capacità di rivelare per ardore il mondo». Fu lettura incantatoria. Nel 2006 Crocetti pubblica un’altra antologia, Breve storia dell’ombra. Ancora una volta, la sensazione di leggere i perentori acuti sapienziali dei personaggi di McCarthy penso a Città della pianura come a Stella Maris : «Quando il mondo sarà sparito, qualcuno dovrà sostenerci, invisibile e per tutta la notte./ Quando il mondo sarà finito, amigo, qualcuno dovrà raccogliere il fardello/ Viviamo la vita come stelle, stelle senza costellazione, accanto alla/ grande forme e alla grande struttura,/ sparse, fuori luogo».
Non pubblica un libro da dieci anni, Charles Wright. L’ultimo, Oblivion Banjo, uscito nel 2019, è una vasta antologia in cui, secondo le intenzioni dell’autore, dovrebbero emergere i cardini della sua poetica: «il linguaggio, la natura, l’idea di Dio».
La prima volta che ho scritto a Wright era il 2016. Con ruvida educazione, rifiutò un’intervista, «non ho più tempo per queste cose». Ne nacque un breve epistolario in assenza, una scrittura sul vuoto. Una volta mi ringraziò per una lettera, «ha portato un refolo di luce in un giorno molto buio». Era il 2021, metà marzo. Tornai all’attacco. Tentennò. Accettò l’intervista. Preparai un certo numero di domande. Ci girammo intorno per un paio di mesi. «Per me la poesia non può avere alcun significato politico», mi aveva detto. Parlavamo di Dante. Infine, rifiutò. «Ho dato troppe interviste in passato, ho sbagliato. La sola risposta è nelle mie poesie». Mi arrabbiai.
Al giornalista della Paris Review che lo aveva intervistato nel 1989, Charles Wright disse che le cose più importanti le teneva in una scatola di latta. «Sono cose insignificanti per altri, tranne che per me. Un paio di alberi genealogici, vecchie lettere, atti che testimoniano la concessione di terre ai miei avi in Arkansas: uno è firmato da John Quincy Adams, un altro da Andrew Jackson. Un tempo i Presidenti erano persone semplici, si occupavano anche di queste questioni». Nella stessa scatola erano stipate «le poesie che ho scritto in Italia, quando militavo nell’esercito» e alcune fotografie dell’infanzia. Un illustre antenato di Wright è stato senatore dell’Arkansas, due secoli addietro. «Ne conosco il nome e poco altro, della sua vita non resta che un tenue bagliore».
Lo avevo braccato per anni.
Non mi chiese scusa, disse che «non era un buon affare». Si rinchiuse in un silenzio pieno di paludi. «Vivo nel caos», disse.
Di solito, parla della sua collezione di frecce e di selci. La poesia, per Charles Wright, pretende la dignità dell’arciere: ospita e tiene in ostaggio colpisce alla gola.