I chilometri da Mosca sono 2mila, le temperature medie invernali tra i -15 e i -26 con punte di -40, il nuovo penitenziario in cui è ospitato, in sigla IK-3, attivo dal 1961 nello stesso luogo in cui sorgeva una lager staliniano, è considerato tra più duri centri di detenzione russi. Eppure l’umore di Alexey Navalny sembra ironico e beffardo come sempre. Attraverso uno dei suoi legali ha fatto distribuire suoi social il suo racconto dopo il trasferimento dalla prigione in cui era detenuto fino a tre settimane fa e la ricomparsa oltre il circolo polare artico. «Sono un Babbo Natale a regime speciale», parlando della barba che nel frattempo si è fatto crescere e agli abiti pesanti per il freddo.
«Ora vivo nel villaggio di Kharp, i 20 giorni di viaggio sono stati piuttosto stancanti…Mi hanno portato qui sabato sera. E sono stato trasportato con tale precauzione e su un percorso così strano che non mi aspettavo che qualcuno mi trovasse qui prima di metà gennaio». Per questo motivo «sono rimasto molto sorpreso quando ieri è stata aperta la porta della cella con le parole: c’è qui per te un avvocato».
La ricomparsa del dissidente più temuto da Vladimir Putin ha un che di simbolico. Kharp, Siberia nord-occidentale, è a nemmeno un centinaio di chilometri da Vorkuta, uno dei buchi neri dell’universo concentrazionario sovietico: una successione di lager distribuiti intorno alle miniere di carbone della regione: nei 20 anni tra il 1935 e il 1955 quasi due milioni di detenuti politici passarono per i gulag della zona. Un numero sconosciuto ma altissimo ci è rimasta per sempre.
Il Novecento è stato il «secolo dei campi»: il secolo di detenzione, concentramento e sterminio degli avversari politici organizzati su scala industriale. Ma il secolo breve, almeno in Russia e non solo in Russia, pare non ancora terminato. Tra le più significative decisioni prese da Putin a cavallo dell’invasione dell’Ucraina c’è stata la messa fuori legge di Memorial, l’associazione che si proponeva di raccogliere le storie e il ricordo dei detenuti dei gulag. Nella nuova Russia anche questo non si può più fare: il periodo del terrore bolscevico e staliniano è stato «sanitizzato» e ricompreso nel percorso, non sempre lineare ma mai rinnegabile, della grande nazione russa.
Con lo stesso impegno e la stessa durezza l’inquilino del Cremlino ha stretto i ceppi contro i suoi avversari politici. A Navalny sono toccati 30 anni di galera, l’accusa più significativa contro di lui è quella di «estremismo». A 25 anni di colonia penale è stato condannato Vladimir Kara Murza, un altro dei suoi oppositori, anche lui disperso in qualche prigione di sicurezza del Paese. E perfino chi non può minimamente rappresentare una minaccia politica non viene risparmiato: Sasha Skochilenko, artista di San Pietroburgo poco più che trentenne, è stata condannata a 7 anni di carcere per aver sostituito i cartellini dei prezzi di un supermercato con alcuni messaggi contro la guerra. Nella Russia di oggi ci sono più prigionieri politici di quanti ce ne fossero alla caduta del comunismo. E nei Paesi suoi alleati, Cina, Iran, Corea del Nord, la tendenza è la stessa. Appunto, il «secolo dei campi» sembra non finire mai.