Giallo è il colore di questa guerra. La polvere è alta anche nelle prime giornate di fango. Le nuvole nere e i bum sul Nord della Striscia segnalano la battaglia. Ancora dalle rovine partono fantasmi di missili che si avventano su Sderot. I tank sono in fila per la revisione: siamo nella base di Tze’elim. Una città di tende e capanni di cemento da cui si entra e si esce a combattere. Qui incontriamo i soldati che devono fornire la risposta a quella che il New York Times ha appena definito «una guerra diversa da qualsiasi altra combattuta fino a oggi». Da Tze’elim si combatte nel Nord, a Gaza città, a Jabalya: qui le prime fortezze del terrore sono state quasi spianate. Eppure i soldati continuano a essere sorpresi da agguati e trappole esplosive, ormai 161 sono stati uccisi. Eppure, lo spirito è alto.
Per battere Hamas, perché Israele possa esistere, da Tze’elim le unità dei miluim, le riserve, escono ogni giorno per combattere, senza tornare al lavoro, alla famiglia: Asaf, un colonnello di 51 anni, che a casa dirige un ufficio di robotica, moglie medico e tre figli, qui dirige la guerra: è il comandante delle operazioni. Tutto è nelle sue mani: sotto una tenda con tecnologia super raffinata, coordina esercito di terra, marina, ingegneri, informazioni e yalom (che vuol dire diamante e sa fare tutto, come entrare in una galleria). Lui ordina di andare avanti, indietro, cambiare strada, distruggere, evitare. Dal 7 ottobre ha questo gigantesco incarico. Esce da una tenda come di malavoglia; è un eroe moderno, un patriota tecnologico carico di responsabilità e di ironia: «Io guido la guerra dall’alto» sorride.
È lui che muove la mitica Brigata 14 che ha salvato Israele durante la guerra del Kippur e che per prima è entrata a Gaza. «Da qui dirigo la guerra della fanteria, dell’artiglieria. Faccio levare in volo i droni, per vedere bene gli obiettivi, le armi, i terroristi… se ce n’è necessità e non ci sono cittadini, muovo l’aviazione a preparare il terreno, ma la richiamo indietro se improvvisamente appaiono dei bambini». Capita spesso? «Dopo tre mesi, meno. Ma la scelta resta: non violare le leggi internazionale, salvaguardando la vita dei miei. Allontano da un obiettivo, dico di spostarsi, di aspettare, di considerare che da quella finestra possono sparare».
Asaf si irrita: «Non è vero che il 7 siamo arrivati tardi. Qui un esercito intero si è mosso a fronte si un caos inaspettato coi carri armati, gli aerei, siamo arrivati nel minor tempo possibile. In difesa.
E quando finalmente siamo andati all’attacco… tutto ha funzionato». Ma le tante perdite, la guerra lenta, Sinwar latita. «Stiamo vincendo la guerra più difficile: i risultati sono sempre maggiori, molte gallerie scoperte, i rifugi dei terroristi conosciuti, i covi di armi rivelati e distrutti. Se lei aspetta che Sinwar esca a mani alzate… Penso che senta i tank sopra la testa. Calma, tempo. Di questo abbiamo bisogno. Combattiamo bene. Lasciateci fare. Distruggeremo il nemico di tutti». Tornato da un’operazione, il maggiore Yehuda, ingegnere industriale, 43 anni, della Brigata 14, anche lui da 70 giorni quasi non ha visto moglie e quattro figli. Ha combattuto prima kibbutz per kibbutz. È stato anche lui settimane senza levarsi le scarpe?
«Ci si fa l’abitudine», magro alto, l’ingegnere è sorridente. Soddisfatto di sé e dei suoi compagni, appena tornati e già pronti a rientrare. «Nei primi giorni una quantità di volontari si è precipitata da noi carica di pentole, dolci e cioccolata, non facevamo che mangiare». La notte si riposa sempre pronti a uscire in 15 in una tenda. Dei compagni perduti Yehuda non vuole parlare: «Siamo tutti comunque decisi a combattere fino alla vittoria: quattro giorni prima del 7 ottobre con moglie e figli, siamo venuti a fare “biking” a Be’eri. Quattro giorni dopo saremmo stati macellati». «Io sono un Kasha» spiega il maggiore. «In prima fila alcuni soldati aprono la strada, poi subito dopo, a piedi, arrivo io». Yehuda cammina solo sulle rovine delle strade sventrate, deve indicare al tank che segue dove è nascosto il pericolo da abbattere e l’obiettivo da combattere. Ha paura? «Dopo, semmai. Là stai ben concentrato».
Ci sono finestre in cui si nascondono i cecchini, bocche delle gallerie da cui ci si può aspettare di tutto, porte, vicoli: «Devo scovare i terroristi, evitare i civili, scovare i covi da cui possono sparare e decidere di colpire. Vado avanti piano. Certo se sparassimo sulla gente faremmo prima. Ma cerchiamo di non colpire innocenti». Però da tutto il mondo si dice che lo facciate. «Purtroppo può capitare. Ma è la struttura stessa di questa guerra che è preparata in modo diabolico: la mia unità ha appena trovato sotto due letti dei bambini missili Rpg». Yehuda non incontra molti gazawi: invitata coi volantini a scendere al Sud.
«Se vediamo individui in movimento o sono terroristi o loro amici».
Yehuda da vent’anni viene nelle riserve con un amico, Dror, la sua sicurezza, l’incarnazione della solidarietà: «Mentre cammino ci parliamo con gli auricolari: mi avverte di ogni rischio, gli chiedo di proteggermi su un fianco, è sempre con me. Il mio angelo personale. Mi fido di lui a occhi chiusi. Se sospetto una trappola, subito agisce». È amicizia consolidata dalla sensazione di stare facendo qualcosa di indispensabile. Te lo ripetono, si scocciano quando chiedi se hanno nostalgia o paura. Salviamo il Paese, siamo noi il muro di difesa. «Il mio sogno? Entrare in un palazzo e trovare un gruppo di rapiti, vivi! Abbracciarli, difenderli, riportarli a casa».