Per quegli altri non c’è partita. Scrollano le spalle e applaudono, il biondo olandese e l’irruento francese. Dal palco hanno appena chiamato il nome dell’italiano con il codino. Pazienza per Dennis Bergkamp e per Eric Cantona, secondo e terzo. Quel 28 dicembre 1993 il pallone d’oro è un affare che riguarda univocamente Roberto Baggio.
Giusto così, per la selezionata giuria. Vero, Roby è il pennellatore seriale di una Juventus che, nel 1992/93, ha arrancato in campionato, piazzandosi quarta, ben lontana dal Milan di Capello. Quella Signora trapattoniana incassa troppi gol, ma davanti diverte. Baggio strapazza le difese altrui con l’irriverenza che è connaturata al genio. In campionato segna 21 gol – meglio di lui fa solo Signori, con 26, ma calciando sette rigori – offrendo sempre esecuzioni che dribblano la banalità inferta dalla rete standard. No, le sue sono quasi sempre opere d’arte pallonare.
A novembre, nel debordante successo in casa contro l’Udinese, infila quattro dei cinque gol bianconeri, manifestando una ingiocabilità ormai conclamata.
Roberto è il capitano di una squadra che davanti annovera Vialli, Ravanelli, Di Canio e Casiraghi. Un distillato di talento calcistico che consente di premere in bacheca la coppa Uefa, torneo dentro al quale Baggio si muove con cadenze da mattatore. In semifinale, contro il PSG di Weah, il divin codino fa la differenza disputando due gare di caratura galattica. All’andata piazza una doppietta che permette di rimontare lo svantaggio inflitto proprio da Weah: la Juve vince così 2-1 al Delle Alpi. Al ritorno si ripete, segnando il gol dello 0-1 al Parco dei Principi che consegna al Trap il pass per la finale.
Nel doppio confronto contro il Borussia Dortmund non c’è partita. I tedeschi passano per primi, con Rummenigge, ma Dino Baggio pareggia e Roberto assesta un’altra doppietta. Poi arriva un 3-0 nitido al ritorno. Coppa alzata contro il cielo, trionfo per Roby e i suoi compagni.
Segna reti determinanti e spesso gradevolissime, sa usare destro e sinistro con somma disinvoltura, è un silenzioso leader carismatico e il compagno in cui rifugiarsi per gestire i momenti di difficoltà. Roberto Baggio ha dentro una luce differente. Tratteggia in agilità il suo manifesto dove gli altri devono sforzare le pupille. Il campo è la tela per i sogni lucidi di questo Raffaello calcistico, di quest’uomo capace di sussurrare ai palloni con una grazia fino a quel momento remota.
Abbastanza per la commissione. Il Pallone d’oro deve essere suo: è il terzo italiano a stringerlo, dopo Paolo Rossi e Gianni Rivera. Da lì in poi avrà ancora un mucchio da dimostrare, soffrire, gioire. Intanto la notte che scende su Parigi è tenera. Roby si sfrega il codino e poi sorride davanti ai flash di mezzo mondo. Quegli altri due si siedono mestamente, dopo avere a lungo applaudito.