Manettari pronti a violare la norma anti-gogna

Manettari pronti a violare la norma anti-gogna

In attesa di scoprire se anche il Senato la approverà, rendendola definitivamente legge dello Stato, la norma varata dalla Camera che pone rigidi limiti alla cronaca giudiziaria continua a fare discutere. E nello scenario irrompe la disobbedienza annunciata dal Fatto Quotidiano.

Prima il direttore Marco Travaglio, poi l’editorialista Giovanni Valentini – ex firma di Repubblica – lanciano la parola d’ordine dell’obiezione di coscienza. Anche se il provvedimento diventasse esecutivo, il Fatto continuerà a pubblicare testualmente il contenuto delle ordinanze di custodia, fa sapere Travaglio: «e, appena processati, ci rivolgeremo alla Corte di Strasburgo che ha già sancito decine di volte il diritto di pubblicare atti di interesse pubblico persino se sono segreti di Stato».

Sulla concreta applicabilità della norma si incrociano peraltro da giorni valutazioni differenti. Impedendo di pubblicare «per intero o per estratto» il contenuto delle ordinanze, secondo alcuni giuristi la norma rischierebbe di andare a sbattere contro la bocciatura della Corte Costituzionale; c’è anche chi sostiene che gli indagati ne verrebbero alla fine danneggiati, perché i lettori si dovrebbero accontentare della sintesi degli elementi d’accusa fornita dai cronisti giudiziari, senza poter farsi una idea diretta del contenuto dei provvedimenti emessi dai giudici; una conseguenza paradossale potrebbe anche essere che gli ordini di custodia potrebbero venire pubblicati per intero da organi di stampa e siti stranieri, non soggetti alla legge italiana, ma non dalle testate di casa nostra.

Insomma, una situazione caotica. Dove però l’unica certezza è che la legge – proposta dal deputato calendiano Enrico Costa, teoricamente in quota all’opposizione – ha le sue motivazioni in decenni di abusi mediatico-giudiziari, in cui sono stati resi pubblici, estrapolandoli dagli ordini di custodia, anche fatti privati o estranei ai fatti contestati. Uno dei volti più noti tra le vittime delle inchieste sbattute in prima pagina fu Enzo Tortora, la cui figlia Gaia prende le difese della nuova norma e critica le reazioni indignate del sindacato dei giornalisti, la Fnsi: «Una categoria che non vuole diventare civile», scrive. Nell’appoggiare la presunta «legge bavaglio» la Tortora si rifà ad un articolo del giornalista del Foglio Ermes Antonucci, che chiede «i giornalisti che si stanno indignando per l’emendamento Costa lo sanno di cosa stanno parlando?». Secondo Antonucci se l’emendamento fosse approvato «si potrà riportare la sintesi del contenuto, ma non l’ordinanza così com’è. Come avveniva prima del 2017! Non risulta che prima del 2017 i giornalisti avessero un bavaglio, anzi, ne sono state sputtanate di persone indagate che poi sono state archiviate o assolte (nel silenzio generale)».

Anche se in realtà una norma rigida come quella proposta vittoriosamente da Costa non è mai esistita, il post di Antonucci solleva un problema reale: la disparità mediatica tra accusa e difesa, il grande spazio riservato acriticamente agli avvisi di garanzia e ai mandati di cattura confrontato con le poche righe dedicate alle assoluzioni. Ma questa è una patologia che l’emendamento Costa non scalfirebbe, perché ha le sue radici nel rapporto perverso – denunciato nei giorni scorsi dall’ex magistrato Luca Palamara – tra settori delle Procure e giornalisti embedded, foraggiati con notizie di prima mano in cambio dell’appoggio mediatico.

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