L’Italia tutela la sua arte, non i “Mural Scrolls”

L'Italia tutela la sua arte, non i "Mural Scrolls"

Vi ricordate i direttori di musei stranieri? Tanto se ne è parlato e oggi non ce n’è più uno, se non l’ottimo Eike Schmidt diventato cittadino italiano che, da direttore degli Uffizi, è stato nominato direttore di Capodimonte, e presto sarà sindaco di Firenze. È evidente che un buon direttore può essere straniero, ma è altrettanto evidente che il rispetto per le nostre università, le nostre lauree, le competenze dei nostri storici dell’arte e dei funzionari non possono essere mortificate da una provinciale forma di esterofilia che ha guidato alcune delle scelte del ministro Franceschini. Il rispetto per i nostri esperti e studiosi deve guidare le scelte per la pubblica amministrazione (italiana), la quale infatti non prevede nessuna delle autorità apicali di nazionalità straniera. Non tali sono ambasciatori, prefetti, questori, capi della polizia, magistrati, deputati, amministratori locali, garanti, membri della Corte Costituzionale, del Csm, presidenti della Repubblica, delle Regioni, delle Province, e perfino sindaci. Ed è talmente naturale che nessuno, dopo le tante polemiche soprattutto contro di me, si è preoccupato delle ultime nomine di soli italiani nei musei italiani.

Evoco questo tema perché ciò che vale per gli uomini vale anche per il patrimonio. Il nostro Codice dei beni culturali tutela il patrimonio italiano, tant’è che anche un demente, anzi due, iniziano un articolo sconclusionato contro di me per l’esportazione di serigrafie (dico serigrafie) di Miró e Matisse, Calder, Matta, cioè multipli, con una frase che fa intendere la loro confusione mentale: «Volete esportare un pezzo del patrimonio culturale italiano? Al ministero della Cultura c’è l’uomo che fa per voi, Vittorio Sgarbi». Da qui deriva l’incredibile titolo di un articolo, non so se diffamatorio ma certamente scriteriato: «Anche Miró e Matisse. Con Sgarbi al ministero l’arte se ne va a richiesta».

È un articolo dell’«Infetto quotidiano», giornale letto da una setta e scritto da pseudo giornalisti che usano metodi propri degli stalker: Bison e Mackinson. È evidente che essi sono ignoranti e in malafede, giacché ignorano che il Codice dei beni culturali e del paesaggio, come stabilito nel Decreto legislativo numero 42 del 2004, aggiornato il 9 ottobre 2023, nei suoi primi articoli indica i confini dell’azione legislativa. L’articolo 2 è inequivocabile: «La tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura».

Partendo da questa premessa, ne discendono conseguenze inequivocabili. L’attività di tutela riguarda esclusivamente il patrimonio «nazionale», con evidente riferimento alla cooperazione di regioni, comuni e città metropolitane in quanto enti pubblici «territoriali». Tutto quindi concorre a definire i confini della tutela nell’ambito del patrimonio artistico, così come paesaggistico, italiano. La cosa è così chiara che si estende infatti al paesaggio come «territorio espressivo di identità», il cui carattere deriva dall’azione di caratteri naturali umani e locali. Ne consegue che il Codice «tutela il paesaggio relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono la rappresentazione materiale e visibile della identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali». Nel definire i beni culturali il Codice fa riferimento a «raccolte di musei pinacoteche e altri luoghi espositivi dello stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente ed istituto pubblico», e insieme «a cose immobili e mobili che presentano interesse artistico o etnoantropologico (quindi italiano), agli archivi e alle raccolte librarie». Estende l’attenzione e l’interesse degli enti preposti alla tutela a «le cose a chiunque appartenenti che presentano un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico eccezionale per l’integrità e la completezza del patrimonio culturale della nazione». Ripeto: «della nazione».

Principio tanto chiaro che non si è ritenuto di indicarlo in ogni passaggio, tanto è evidente e implicito.

Dunque, dopo questa premessa, riconosciuta anche dai due pseudo giornalisti, nell’attitudine quotidiana degli stalker, che rapporto hanno con il patrimonio nazionale italiano Miró e Matisse?

Di cosa stanno parlando i due tangheri? Di serigrafie di Joan Miró, Henri Matisse, Alexander Calder, Roberto Matta, uno spagnolo, un francese, uno statunitense, un cileno. Progetti per carta da parati, e cioè neppure opere d’arte originali in collezioni storiche, ma esempi di arte applicata con funzione dichiaratamente decorativa. Progetti che non hanno alcuna destinazione precisa, come tutti i prodotti di design, e nulla che abbia a che fare con l’asserito (dai due ignoranti) «momento specifico dell’arte del Novecento romano». Turisti a Roma sono stati Miró, Matisse, Calder; e nulla rileva che quelle decorazioni stessero nell’attico di Roma dove viveva Matta, che poteva disegnare carta da parati come cravatte, in nessuna relazione con il patrimonio artistico italiano. Averne chiesto l’esportazione è un legittimo diritto e la testimonianza di una particolarissima considerazione dello Stato, perché nulla attesta che siano del 1948, giacché l’artista che ne fu proprietario, Roberto Matta, era costantemente in movimento, dalla Scandinavia a Londra, e arrivò a Roma nel 1949 per lasciarla nel 1954 e trasferirsi a Parigi.

Stabilmente in Italia fu solo dagli anni Sessanta, a Tarquinia, dove io l’ho incontrato. Il suo riferimento fu sempre il mondo, non un territorio delimitato, come per gli artisti delle scuole locali italiane fino alla fine dell’Ottocento. Le sue opere sono esposte nei più importanti musei del mondo (a Londra, New York, Venezia, Chicago, Roma, Washington, Parigi, Tokyo).

E non ci sarebbe ragione che opere seriali di artisti che si sono rivolti al mondo dovessero essere vincolate arbitrariamente all’Italia, come ha opportunamente riconosciuto un funzionario di grande intelligenza, Andrea Viliani, già direttore di un museo internazionale di arte contemporanea, del mondo, benché a Napoli, come è il Madre. È la mia convinzione profonda, garantita dalla Costituzione e dalla conoscenza letterale del Codice, ignoto ai due ignoranti. Il mio compito è interpretare la legge nel suo testo originale.

I mural scrolls, perfino nella lingua, non sono italiani, né di spirito né di esecuzione. Essi pretendono il pubblico internazionale cui sono destinati come tutta l’arte contemporanea, come sono tutti gli artisti, a partire dai futuristi. Altro concetto ignoto ai due falsi giornalisti, i quali descrivono come «riservato», nel numero precedente del loro giornalino, il mio incontro istituzionale con i responsabili degli Uffici esportazione, per indurli ad evitare arbitri e prepotenze. Tanto «riservato» che fu preceduto e seguito da due convegni pubblici nella sede del ministero. Il riferimento normativo alla nazione, ai territori e agli enti locali si consuma con il luogo di proclamazione del Manifesto del Futurismo, che è Parigi. Dunque, come suggerisce un’ottima funzionaria, già direttrice della Galleria Borghese, Anna Coliva, a partire dal 1909. Io mi sono sospinto al periodo 1915-1920, esaurita l’esperienza della pittura metafisica di De Chirico. Da quel momento, dalla Ferrara delle Muse inquietanti, qualunque pittore non ha più un rapporto con il contesto territoriale a cui appartiene, e dipinge per il mondo.

Un riconoscimento universale è venuto a Morandi, a Burri, a Fontana, proprio per essere stati conosciuti e accolti nelle collezioni dei grandi musei del mondo.

Per questo si è ritenuta recentemente, da parte del Tar, illegittima, «per eccesso di potere, per indeterminatezza e per vaghezza dei riferimenti istruttori nel decreto», la notifica di un dipinto di Leonor Fini, L’amitié, perché appartenuto a Valentina Cortese (una pertinenza ridicola); ma l’ignoranza degli stalker è tale da continuare a non capire quanto arbitrio vi sia nel vincolare a uno spazio privato italiano, in un salotto di casa, un dipinto di Mario Schifano del 1962, venduto in un’asta Sotheby’s a Milano a un collezionista di New York. Gli ignoranti fingono di non capire che è un danno per Schifano (e per l’arte italiana di quel tempo) che un suo dipinto del 1962 non sia in una collezione o in un museo americano, rappresentando, come Burri e Fontana, un tema universale, e non locale. Non è difficile da capire ma sarà forse utile alla loro ignoranza metodica sapere che il privato che ha lamentato l’arbitrario vincolo è uno dei grandi scrittori italiani, studioso di teatro e letteratura, Masolino D’Amico. E dovrebbe, secondo il modesto funzionario, incantato dal dipinto solo dopo la vendita a un milione di euro, guardarselo a casa sua senza che nessun altro, se non occasionalmente, lo possa vedere, e senza che lo Stato italiano, ritenendo, per il solitario capriccio di un funzionario, l’opera così importante, abbia proposto di acquistarla per un museo italiano, con il diritto di prelazione, cosa che potrebbe essere onesta e logica.

Che un giornale spacci bugie a ogni articolo è sconfortante, per l’insufficienza di un’azione di contenimento delle balle e delle diffamazioni da parte dell’autorità giudiziaria. Non sanno quello che dicono, eppure scrivono. Ci teniamo la malinconia, e speriamo nell’azione divina.

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