La crisi dei negozi titolari e commessi puniti dallo Stato

La crisi dei negozi titolari e commessi puniti dallo Stato

Lo sciopero dei lavoratori del commercio e del turismo ha causato disagi a chi, in vista del Natale, proprio in queste ore deve fare i salti mortali per trovare i regali natalizi. Non si può però negare che la situazione di chi lavora nei servizi sia spesso difficile, anche se è opportuno chiedersi quanto sia sensata quella versione dei fatti che oppone i buoni dipendenti ai cattivi padroni.

Per evitare ogni semplificazione è doveroso in prima battuta avere ben presente che in Italia le remunerazioni – nel commercio e non solo – sono assai più basse che in quasi tutti gli altri Paesi occidentali, ma al tempo stesso è bene ricordare che questo si deve in primo luogo al fatto che l’economia italiana non cresce da un paio di decenni a causa di politiche stataliste e assistenziali, spesso sponsorizzate dai sindacati.

Ha senza dubbio ragione, allora, chi ricorda che ci sono lavoratori ai limiti della povertà (in quanto precari o impiegati solo a tempo parziale), e anche chi fa presente che pure gli assunti a tempo indeterminato e che lavorano l’intera settimana hanno stipendi modesti. Queste però sono le paghe di un Paese che s’è impoverito a ogni livello e nel quale «fare impresa», d’altra parte, è sempre più complicato.

Ormai chi ha una partita Iva è costretto a combattere ogni giorno una partita molto dura, dovendo reggere all’urto delle imposte, di nuove regole insensate che aumentano il tempo da dedicare a inutili adempimenti, di decisioni del tutto arbitrarie assunte da politici e burocrati. Ne discende che un gran numero di ipotesi imprenditoriali muore ancor prima di venire alla luce e anche quando un’azienda nasce davvero resta sempre incerto quale potrà essere il suo futuro, dato il contesto fiscale e regolamentare tanto avverso.
Una volta che si comprende questo, si fa chiaro che non abbiamo, da un lato, un sottoproletariato sfruttato composto da commessi e altri lavoratori delle attività commerciali e, dall’altro, imprese senza cuore che realizzano enormi profitti. Se questa fosse la situazione, i lavoratori avrebbero una notevole forza contrattuale. Invece non ce l’hanno; ed essi non sono in grado di modificare la loro condizione salariale perché in numerosi casi si trovano pure a operare entro piccole e piccolissime imprese che faticano a restare in vita.

Come Confcommercio ha mostrato in un suo studio di qualche mese fa, in Italia nel decennio 2012-22 sono spariti 100 mila negozi, ciò che ha ridimensionato in maniera significativa anche il numero degli occupati. Abbiamo insomma un settore in ginocchio entro un Paese che, nel suo insieme, in questi anni tutto ha fatto per ridurre la sua capacità di produrre e creare occupazione. Non è dunque accusando le imprese che i lavoratori del commercio miglioreranno la loro condizione. Bisognerebbe invece che ci fosse una mobilitazione unitaria contro lo statalismo: perché le cose cambierebbero se fosse tolta di mezzo una parte significativa delle tasse e delle regole che oggi sbarrano la strada agli imprenditori. Quando trionfano dirigismo e demagogia, è l’intero settore privato, composto da dipendenti e datori di lavoro, a pagare un prezzo davvero alto. Più che di scioperi, allora, ci sarebbe bisogno di una forte alleanza tra imprenditori e lavoratori. A quel punto le cose cambierebbero davvero.

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